On Air

Sinonimi

Home
  • Home
  • Libri
  • Via delle Botteghe Oscure del Nobel Patrick Modiano

Via delle Botteghe Oscure del Nobel Patrick Modiano

22 Dicembre 2014 Libri


Via delle Botteghe Oscure è il primo romanzo di Patrcik Modiano che leggo e l’incontro, ahimè, non è stato dei più fortunati; anzi, senza troppi giri di parole, lo definirei decisamente deludente.

Dovessi giudicare solo da questo breve (non so bene neanche come denominarlo) “romanzo”, mi verrebbe da dar ragione a Pirandello quando, a proposito del premio Nobel, scrisse: “Pagliacciate! Pagliacciate!”.

Si tratta di un testo decisamente compiaciuto che, tuttavia, a parte qualche accurata descrizione paesaggistica, regala ben poco al lettore. Una trama svogliatamente intessuta, che non regge in alcun modo le velleità proustiane dello scrittore – ed, anzi, alla lunga, sembra proprio una parodia malriuscita – , tenta di far emergere dall’ombra alcune figure improponibili e decisamente improbabili –protagonista compreso!- di “invisibili” ed “ultimi” che né ultimi né invisibili in realtà sembrano mai essere stati.

Ma in verità non è quello che viene scritto a darmi fastidio quanto piuttosto, a pelle, ciò che vi si cela sotto, il non scritto, l’idea stessa (o la non idea) di queste istantanee stile polaroid che si fingono romanzo per dare un senso alla compiaciuta maestria nel descrivere paesaggi mondani di Parigi (e non solo), quella ingenua capacità descrittiva che, priva della sua essenziale controparte narrativa, risulta sterile, fine a se stessa, vuota.

Potrei anche fingere di rispettare il tentativo di abbozzare un’idea di letteratura parecchio dissimile dal mio (in generale amo le diversità), ma non posso certo apprezzare un qualcosa che si finge letteratura senza minimamente esserlo. Cosa sono queste 201 pagine? Un finto noir, un finto pamphlet filosofico? No, solo fumo e nebbia… come i personaggi che lo “animano”.

Scrivendo spesso si chiede al lettore lo sforzo di sospendere il giudizio, di credere a ciò che in altre circostanze credibile non potrebbe mai né essere né apparire; tuttavia questo segreto accordo scrittore-lettore sulla sospensione del giudizio alla fine conduce verso una direzione, una meta ben precisa… qui nulla di tutto ciò.

*Attenzione qui si fa parecchio spoiler*
Il narratore è un uomo presumibilmente sulla cinquantina immemore del proprio passato, affetto da amnesia regressiva che si rivolge ad un investigatore – preteso o presunto barone Costantino von Hutte –, anch’egli dimentico del proprio passato, per avere un aiuto. L’investigatore, mosso da pena, prende il narratore con sé dandogli l’identità fittizia di Guy Roland e ammaestrandolo nel lavoro. Inspiegabilmente per anni i due lavorano insieme ad altri casi, completamente dimentichi della propria vita, fin quando Hutte non decide di andare in pensione e Guy, rimasto solo, si “ricorda” di avere un passato da investigare. Non si sa come aggancia un tale che, telefonicamente, gli dà appuntamento in un localino chic e lo porta poi da un altro amico mondano (un cuoco cui piace la vita notturna) per vedere di ricordarsi insieme se mai avessero visto questo tale Guy. I due viveurs lo confondono, per via della notevole altezza, con un tale Stioppa di origini russe che frequentava come loro locali notturni. Guy si mette sulle tracce di questo Stioppa e, trovatolo, inspiegabilmente il vecchio gli regala dei ricordi, delle foto di cui si voleva disfare. Fra quelle foto ve n’è una in cui il nostro protagonista crede di riconoscersi… così parte, a spezzoni e con molti vicoli ciechi, la ricerca del tempo perduto. Così accade che si accenda qualche ricordo che lo convince a credersi ora uno ora l’altro di questi tizi davvero strampalati, fino ad arrivare alla convinzione più forte di essere un tal Pedro, sicuramente il personaggio più stupido fra i tanti personaggi stupidi che si possano incontrare in questo libro. I ricordi perduti risalgono al periodo della Repubblica di Vichy, quando, per un non ben precisato (anzi proprio mai menzionato) pericolo di cattura da parte dei nazisti (forse l’unico a rischiare poteva essere proprio l’inverosimile personaggio Pedro McAvoy Stern di origini greche ma dal secondo cognome ebraico), un gruppetto di giovani con passaporto chi inglese, chi greco, chi francese, chi americano, decide di andarsi a rifugiare giusto giusto a Megève – anche allora rinomata località sciistica di contro a quanto si lascia intendere nel libro – e di darsi alla bella vita con feste notturne, giochi di società, incontri piccanti in uno chalet preso in affitto, fino a quando questo Pedro, contro ogni logica, accetta la proposta di uno sconosciuto maneggione russo per varcare il confine e recarsi clandestinamente in Svizzera.

Credetemi la sintesi che ho fatto qui sopra non esprime pienamente tutte le fesserie che potrete trovarci dentro. Risibile anche la postfazione di Giorgio Montefoschi che paragona questo lavoro ai capolavori di Fellini (Otto ½ e la Dolce vita) , che definisce proustiano e che altri – come scrive lo stesso Montefoschi – hanno voluto vedere influenzato dalla cosiddetta ècole du renard d Butor, Sarraute e Robbe-Grillet. L’unico aggancio reale che ho trovato fra questo testo e Otto ½ è il protagonista del secondo, con la differenza che qui lo scrittore non solo non trova il bandolo della sua trama ma anche i suoi attori, i suoi sogni, i suoi ricordi sono spenti e quando hanno provato ad accendersi è apparso subito chiaro che non ne valeva proprio la pena.
Aggiungo che, se proprio si doveva dare un premio a qualcuno su certi argomenti, sarebbe stato meglio dare il Nobel ad un certo Fernando Pessoa.
Armando Di Carlo

0Shares

, , , , , , , , ,

Share