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Teatro: “Un uomo a metà”… teatro a metà?

13 Novembre 2015 Articoli per SenzaPatti Teatro


Il monologo, che vorrebbe essere a metà fra dramma e commedia, è una lunga – anche troppo – retrospezione della vita del protagonista, tale Giuseppe, rappresentate di articoli religiosi, che si rivelerà presto essere uomo mediocre, superfluo, da niente più che uomo a metà.
Anche il testo è mediocre, superfluo, da niente, come il suo protagonista; stereotipi e cliché la fanno da padroni involontari. Così la penna del drammaturgo diventa rullo compressore che schiaccia, appiattisce ogni cosa che incrocia sulla sua strada; religione, sacralità, moralità, umanità, sessualità, libertà, comicità, ironia, dramma… tutto compresso, denaturato, sterile se si vuole, per utilizzare una banale metafora sessuale tanto cara all’autore.
Rugo è certamente un mago, se alla stregua di Merlino, Cagliostro o Gargamella decidete voi.
Certo è che temi e trama di quest’opera hanno un retroterra – naturalmente banalizzato – importante e sterminato, impossibile da trattare nella sua interezza in questa breve recensione. Già dal nome è evidente il debito – che non si estingue certo col solo nome – con un film del 66 del palermitano Vittorio De Seta (anche qui problemi psicologici legati alle relazioni personali e sentimentali, conseguenti tradimenti, aitanti e “prepotenti” -o “arroganti”- antagonisti, follia, morte) ma altri importanti temi sono presi da molta drammaturgia meridionale moderna e contemporanea, un debito chiaramente individuabile c’è anche con Arthur Miller e, ancora, col teatro russo di fine 800, con Pirandello e mi fermo qui per non divagare troppo.
Giuseppe è talmente mediocre come personaggio che, a confronto, Ivanov e Ivan Il’ic risultano personaggi brillanti dotati di grande carisma e dignità e Maria, la fidanzata, né bella né brutta, né carne né pesce, è la sintesi perfetta dell’intera opera. Si vorrebbe svelare l’ipocrisia della società odierna ma non ci si riesce, avviluppandosi anzi inestricabilmente in quella stessa ipocrisia. Se si volava far piangere, non si fa piangere, se si volare far ridere, non si ride (almeno nel mio caso s’intende), se si voleva far riflettere, le riflessioni non sono quelle sperate o immaginate (parlo, ovviamente, ancora una volta della mia personale esperienza), ma altre, meno edificanti per l’autore e per chi ha deciso di portarlo in scena; ero seduto accanto ad una signora di mezza età che rideva di gusto ed io sorridevo, immaginando, seduti al posto della signora e nelle poltrone accanto, i vari Michele, Ivanov, Ivan, Willy, Antonio, Batta Malagna etc. prendersi gioco di Giuseppe, del suo piccolo e squallido mondo, delle sue donne, delle sue madonne, ridere del suo membro eretto nella vulva di una pornostar thailandese proprio quando cessavano le risate dei suoi amici. Immaginavo dunque un metateatro che, forse, potrebbe funzionare più di quanto non funzioni quest’opera così com’è. Anche questo è il bello del teatro.
Se poi la domanda era su quanta parte della libertà dell’individuo dipenda dall’ambiente che lo circonda, beh, anche Giuseppe è figlio del rullo compressore, non ha bisogno della società schiacciata partorita dal suo autore/creatore per sapere, non appena nato, dove andrà; la sua strada non è acqua limpida di fiume, non scorre vorticosa e contorta sfociando in mare perhé la sua strada è bitume compatto, avvolgente, isolante, dove tutto è niente e che non porta da nessuna parte. Giuseppe è una macchia (una macchietta in verità) grigia come il fumo, il nessuno in un mondo di luci che vorrebbe solo andar via lontano perché non ci capisce niente di Tenco, nonostante gli sforzi e lo spessore del suo interprete, il bravo Gianluca Cesale.
Ardò (Armando Di Carlo)

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