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Senza indigeni. Tindari e lo spettacolo della vita.

27 Ottobre 2015 Articoli per SenzaPatti


La mattina del 13 agosto di quest’anno, insieme a Lord Mai Basic ci siamo recati al Teatro Greco di Tindari. Intorno alle 11 del mattino, quel giorno, tra sound check e pause pranzo, abbiamo avuto l’occasione di incontrare e intervistare il cantautore Antonio Di Martino.
Antonio ci ha raccontato la sua esperienza di vita e quella musicale e come sia giunto a realizzare il suo ultimo album, “Un paese ci vuole”, il cui titolo è tratto da un romanzo di Cesare Pavese, “La luna e i falò”.
La vita da musicista lo ha condotto in lungo ed in largo per l’Italia e non solo; viaggiando è entrato in contatto con esperienze e sensibilità diverse, ma molto spesso con sentimenti comuni. Antonio, tra le altre cose, ha fatto un viaggio in Messico, che lo ha molto segnato: gli è sembrato di ritrovare lì caratteri comuni della vita dei paesi siciliani e italiani, pratiche simili formate nel solco di un certo simbolismo e di una certa religiosità unita al rapporto umano col paesaggio; un paesaggio che nei dintorni di Oxaca, gli è sembrato simile a quello dell’entroterra siciliano. In particolare lo ha colpito il culto della morte tipico del Messico, che in qualche modo gli ha ricordato la tradizione siciliana del “livari ‘u scantu”.
L’idea per il nuovo album è nata lontano da casa, proprio pensando a casa. Tornato in Italia ha cercato di parlare di più con suo nonno per farsi raccontare le storie più importanti di cui avesse memoria; ma se non è immediatamente riuscito a tradurre quelle storie in canzoni, l’elaborazione successiva di immagini lo ha portato anche ad un cambio stilistico nei testi: da un linguaggio complicato e alla ricerca di “effetti” a scritture più semplici e universali.
L’interesse per i paesi è, come in Franco Arminio – scrittore che si è autodefinito “paesologo”- , un interesse etno-poetico: Antonio ci parla del superamento della forma cittadina, della ri-creazione un po’ ovunque, anche all’interno delle città, della dimensione del paese, insieme alla volontà di tutelare il paesaggio e le modalità più profonde dell’abitare.
Qualcuno gli ha chiesto di scrivere un articolo per ogni paese nel quale va a esibirsi. A noi ha chiesto con chi potesse parlare per scoprire Tindari, la sua quotidianità e la sua storia. Immediatamente abbiamo sentito il bisogno di precisare che Tindari non è un vero e proprio paese, che il paese è Patti; che sarebbe dovuto andare lì per vedere qualcosa. Lo abbiamo fatto istintivamente, senza ragionarci; solo dopo abbiamo capito che sbagliavamo: non solo perché le forme del paese che egli cerca sono riscontrabili anche qui, ma soprattutto perché l’etnografia, per avere senso, deve scontrarsi con una realtà che sfugge, che non dà risposte perché necessità di domande diverse.
Ora, se provate a cercare “Tindari” su un qualsiasi motore di ricerca, troverete moltissime pagine dedicate al Santuario, alla Madonna Nera, agli scavi archeologici, ai laghetti di Marinello, alla storia antica della città, ma nulla, nemmeno una riga, nemmeno una notizia, che riguardi la sua comunità, i suoi abitanti, le sue storie quotidiane, cioè la vita di un paese reale. Così, ad esempio, sappiamo tutto della Chamaerops Humils (palma nana) o delle porifere di area costiera, come una nuova calcispongia scoperta da poco nel sistema di stagni della Riserva Marina di Oliveri-Tindari, conosciamo con precisione il territorio dell’antica Tyndaris e le sue pertinenze (così anche Patti ed i suoi oltre 50km quadrati di cui quasi 12 km quadrati edificati), le sue pietre, i lotti, i terreni agricoli, le costruzioni moderne etc.; e tutto questo, attenzione, è bene, non sosteniamo il contrario. Conosciamo prevalentemente questi aspetti perché, effettivamente, di abitanti ce ne sono davvero pochi, ma soprattutto perché questi ultimi non hanno piena cittadinanza, scalzati dai diritti di una popolazione globale e forse anche perché, nel nostro territorio, manca chi si sia interessato in maniera continuativa a studi di carattere sociologico ed antropologico, soppiantati o messi da parte dalla maggiore attenzione verso quelli sopra menzionati.
Quanto espresso in estrema sintesi ci ha portato ad intraprendere una prima sommaria indagine su questo piccolo nucleo umano che, costretto entro delle “riserve” e in “parchi protetti”, vive in una situazione peculiare in cui non è l’uomo ad essere al centro dell’interesse dello sfruttamento del territorio ma la storia e la scienza e la religione che da esso si sviluppa; qui gli sparuti abitanti del luogo hanno dei vincoli ben precisi, delle limitazioni – gioco forza – che ne condizionano (in bene e in male) l’esistenza, dal semplice restauro della propria abitazione al quasi obbligo di chiudere le proprie case all’avvio delle celebrazioni settembrine in onore della Madonna per via dei tanti pellegrini, dall’impossibilità di coltivare terre che non sono più loro o di pascolare bestiame, dal lavorare altrove (a meno che non si abbia un’attività in qualche modo legata a questo “circuito” della “cultura del turismo” cui, oramai sembra evidente, sottendono anche i festeggiamenti della Madonna Nera) all’essere invisibili, “riserva” di serie b nella “riserva” e, sopratutto, condannati probabilmente all’estinzione come comunità, come umanità nativa. Tindari avrebbe potuto essere un borgo come tanti altri, magari anche snaturato e profondamente legato all’economia del turismo culturale come altre località anche molto vicine a noi (pensiamo a Taormina), invece determinate circostanze, unite alla straordinaria congiuntura di una conformazione geografica particolarissima, di un sito archeologico d’inestimabile valore e della sacralità del luogo, hanno fatto in modo che esso sia ormai non un paese ma una riserva indiana, per cedere il passo alle esigenze dello studio, della conservazione, del naturalismo etc. Quanto detto non è frutto di sensazioni, di percezioni o di speculazioni; ciò che l’osservatore percepisce all’istante – e che poi dà subito l’impressione di riserva umana nella riserva archeologico-naturalistico-religiosa – è la pressoché totale impermeabilità a tutto ciò che gli sta intorno dei nuclei residenziali, il loro persistere in ambienti chiusi naturalmente o, sopratutto, artificialmente, con recinzioni, cancellate, giganteschi cancelli in ferro, palizzate etc. Tutto ciò – oltre a rendere fisico, palese, il distacco, la dicotomia fra “paese” e “territorio”, che in altri luoghi ed in altre circostanze sembrerebbe lettura se non propriamente artificiale, quantomeno bizzarra e artificiosa – ha più di una giustificazione pratica, prima fra tutte l’estremo baluardo difensivo che rappresenta il “muro”, in questo contesto reso materialmente necessario ai sensi di legge (art.637 C.P.) per esercitare lo jus prohibendi dei tindaritani al resto del mondo (siano turisti, ricercatori, naturalisti etc.) di accedere ai propri spazi, alle proprie case, ai giardini ed ai fondi. Non dev’essere facile vivere da “indesiderati” all’interno del proprio paese; sì, perché qui per lo sviluppo “culturale” l’esistenza di un “paese” dà fastidio, crea problemi, limita la ricerca archeologica e quelle scientifiche e naturalistiche e, conseguenzialmente, il turismo.
Per noi, nonostante tutto, un paese ci vuole: Tindari.

Le vite di Tindari
Andrea, quasi trentenne, è un tindaritano che da otto anni vive a Milano. Prova a raccontarci quello che sa, che gli è stato narrato e che ha vissuto. Non riuscì a frequentare le scuole elementari di Tindari quindi i suoi genitori lo iscrissero a Patti, dove frequentò anche le medie. Per la formazione superiore scelse il Liceo artistico di Milazzo. Ci racconta che in quella fase adolescenziale gli pesava parecchio rientrare da scuola tardi e non avere molte possibilità sociali, perché dopo un certo orario lì, tuttora, non c’è niente da fare. Lo ha salvato un po’ la musica, la batteria suonata con gli amici che salivano da Patti o da altre località per raggiungerlo nella sua bella casa, in quello che, semplificando, chiameremo centro storico di Tindari.
Ci invita a fare un giro nella “vinedda”, via Omero, necessario, a suo dire, per capire davvero Tindari. Qui un piccolo cancelletto è chiuso a pochi passi dall’antica Basilica. L’impatto è sempre abbastanza forte, la fotografia facile. Tra una cosa e l’altra ci parla dei forni antichi, sui quali sta svolgendo una ricerca e per i quali ha in mente un progetto di valorizzazione e restauro.
Quando era piccolo, Andrea giocava con altri quattro o cinque bambini a entrare nel museo senza farsi vedere, oppure ad esplorare il territorio circostante. Dei momenti più belli di partecipazione comunitaria, ricorda l’organizzazione del presepe vivente, che però durò pochi anni, dissolvendosi nel disinteresse generale. Oggi è abbastanza critico sugli eccessi della festa della Madonna e sulla gestione dell’area archeologica; tuttavia si mostra chiaramente orgoglioso di essere tindaritano.
Carmelo, sessantenne, dopo le elementari frequentate a Tindari, scelse la strada del collegio, a Palermo; era già un uomo quando tornò stabilmente al suo paese. Lavorò allora a Patti, alla fabbrica Wagi e poi all’Enel. Nella sua casa sulla provinciale 107, oggi si gode una meritata pensione. Ci racconta che da piccolo i giochi, insieme ad nutrito gruppo di bambini, erano basati sull’improvvisazione. Ricorda le case piccole mal divise che avevano lasciato gli avi tindaritani, stanze spesso separate da una tenda. Soprattutto a partire da questa circostanza, ci dice, ci si cominciò a spostare a Locanda. Ma di quelle case antiche ricorda l’accoglienza rivolta ai forestieri nei tempi della festa di Tindari, i focolari accesi al centro delle case nelle fredde mattine della novena, per riscaldare a turno i membri della comunità riuniti una volta a casa dell’uno, una volta a casa dell’altro. Soprattutto nel periodo della festa ricorda che c’erano alcuni compaesani che suonavano per ore, ma, di certo, non avevano studiato musica; tutto ad orecchio. In passato l’aggregazione comunitaria aveva i suoi grandi momenti attorno alle festività religiose; a Pasqua per esempio le famiglie si univano per realizzare i dolci assieme, le “cuddure” e le colombelle. Poi il carnevale, che una ventina di anni fa si festeggiava, tra sacro e profano, nei locali che ospitano le “Sorelle Speranzine”, anch’esse divenute tindaritane, risiedendo qui fin da piccole. E poi, almeno fino ad una decina di anni fa, tra le occasioni più moderne di comunitarismo, seppur tendenzialmente religioso, ricorda le gite parrocchiali.
Di interessante, Carmelo, ci racconta inoltre l’orgoglio per il Teatro Greco e per le sue rappresentazioni, le quali coinvolsero sempre e unitariamente i tindaritani. Infine, sia Carmelo che quasi tutti gli altri intervistati, ci hanno trasmesso un senso di particolare fastidio e quasi estraneità verso Patti.
Quando si parla di Tindari come comunità di persone, ci si riferisce sempre alla città antica, alla sua storia greco-romana e al suo declino storico rispetto a quel periodo. Eppure ci sarebbe altro da dire.
Nella prima metà dell’800 cominciano i lavori di scavo e di tutela dell’area archeologica; nella prima metà del novecento viene ricostruito, gradualmente, il teatro; dagli anni ’60 riprendono gli scavi della Sovraintendenza ai beni culturali per la creazione di un parco archeologico vero e proprio; nel 1970 vengono posti i primi significativi vincoli paesaggistici; tra il 1995 e il 1998 l’area della Laguna di Tindari-Oliveri diventa un luogo d’interesse comunitario, SIC, e poi un’area protetta dalle normative regionali, denominata “Riserva naturale orientata Laghetti di Marinello”.
Proprio queste politiche di tutela sono al centro delle trasformazioni che hanno riguardato la comunità tindaritana.
Già da prima degli anni ’50, a Tindari, non si può più costruire; si possono ristrutturare gli immobili soltanto in accordo con la Sovraintendenza. Come in molti altri luoghi, gli anni ’60 sono anni di boom economico, di nuove esigenze e di espansione edilizia; quest’ultima per i tindaritani può avvenire solo nell’area di Locanda, dove in quegli anni non vigono normative che limitino l’edilizia. Così, gradualmente dalla metà degli anni ’60 fino agli ’90, un certo numero di famiglie tindaritane va a spostarsi proprio lì. L’opera di allontanamento dal centro storico è completata dalle migrazioni, dagli orizzonti chiusi dello sviluppo del paese, dalla graduale modificazione degli assetti sociali globali. Ad oggi le contrade Locanda e Sgrilla fanno parte di Tindari e sono aree unite, innanzitutto, attraverso la comunità parrocchiale. L’abitato di questa estesa zona conta poco più di 250 abitanti, di cui meno di 10 residenti nel centro storico.
In questo breve riassunto, non possiamo dimenticare né il ruolo preminente delle istituzioni ecclesiastiche sul controllo del territorio, né la venerazione interregionale della Madonna Nera; entrambe con le loro rispettive conseguenze sociali.
Il culto della Madonna Nera è plurisecolare, così come il controllo ecclesiastico, essendo stata Tindari sede di Vescovato per cinque secoli, prima del trasferimento dell’istituzione cattolica a Patti. La festa del 7 settembre in onore della vergine nera è un evento di portata regionale da decenni; ogni anno confluiscono sul “colle di Maria” centinaia di migliaia di pellegrini, di cui una ampia fetta in occasione della festa. Questi numeri, uniti a quelli dei visitatori dell’area archeologica, hanno reso Tindari una zona di interesse speciale per tutto l’hinterland; le amministrazioni comunali ed i privati, infatti, cercano di trarre un profitto economico dai flussi di persone che interessano quest’area.
Nella storia contemporanea di Tindari centrale è stato il ruolo Mons. Giuseppe Pullano: se prima del suo insediamento – avvenuto effettivamente nel 1955 – la festa di Tindari, almeno stando alle testimonianze che abbiamo raccolto da alcuni residenti, non prevedeva alcuna processione, con l’arrivo del nuovo Vescovo e l’inizio dei lavori per la realizzazione di un nuovo Santuario, si diede vita ad una processione che attraversava le strade del centro storico, arrivava di fronte al teatro greco e rientrava al Santuario. I numeri crescenti di pellegrini e visitatori, successivamente, imposero soluzioni diverse; quelle più recenti riguardano il percorso Tindari-Locanda-Tindari.
Diciamolo subito: poco serio è cercare una comunità tindaritana che stia al di fuori dal condizionamento e dallo sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e dei progetti di modernizzazione legati all’attività archeologica, culturale, artistica. I tindaritani contemporanei hanno vissuto e vivono queste dinamiche;le loro forme di socialità ed i loro ritmi sono stati scanditi entro questo quadro generale. Così, se all’inizio l’aprirsi della stagione archeologica di Tindari ha rappresentato nell’immaginario dei residenti un’opportunità nell’ambito lavorativo, la spettacolarizzazione della festa della Madonna con le sue nuove modalità e con l’incremento delle visite, ha finito per generare un certo isolamento dei tindaritani ed un loro diffuso senso di fastidio. Ma non solo questo: la configurazione urbanistica, le possibilità di azione, la formazione culturale individuale sono cose interamente legate all’esplicarsi dell’autorità ecclesiastica, insieme a quella razionale moderna della politica pubblica.
Interessante è quindi notare come in questo contesto si sviluppino le forme della modernità e della postmodernità: il turismo culturale e quello religioso, con tutto un apparato concettuale e materiale legato ad una società dello spettacolo, degli eventi, del consumo.
Aggiungiamo a tutto questo che dagli anni ’50 il Teatro greco è tornato, seppur con alterne vicende, a mettere in scena rappresentazioni teatrali e musicali.

Paolo Gazzara: dalla Tindari spettacolare alla Tindari dello spettacolo.
Scriveva David Chaney nel 1993: <>. Sottolineava George Ritzer: <>.
Paolo Gazzara, per le nostre ricerche, ci ha gentilmente concesso ( e per questo gli siamo debitori) il suo introvabile – perché volutamente non inserito nel circuito commerciale e distribuito dall’autore solo ad una ristretta cerchia di amici – libro “Nigra Sum”, uno spaccato di vita personale in chiave spesso ironica ma scritto con l’inchiostro della memoria più cara per quello che egli chiama “mio luogo dell’anima”. Il paese ce lo descrive così: “[..]il villaggio di Tindari è adagiato lungo la cresta della collina e affiancato da una stradina in terra battuta: piccole case di contadini (in tutto meno di 200 abitanti), molto modeste, allineate una affianco all’altra in modo suggestivo. Il villaggio sta appunto tra il Santuario e la zona archeologica. Molte delle abitazioni più vecchie fanno addirittura corpo con i ruderi antichi, creando con questi una simbiosi unica ed esemplare.” Sfogliando queste pagine, lo troviamo bambino ad essere testimone di un fatto curioso legato alla Madonna che all’epoca, ai suoi occhi, “non era formosa né bella. E a voler essere precisi non era neppure nera”. Egli ci narra infatti che “quando, nel pomeriggio di quello stesso giorno mi trovai a percorrere il lungo corridoio semibuio che portava all’entrata laterale della chiesetta, notai passando che una porta semiaperta lasciava intravedere una scena che mi sembrò a dir poco incredibile. [..] Lungi da eventuale miracolo, era proprio lei, [si riferisce alla Madonna ndr.] al centro della stanza, la stessa che da secoli si venerava in quella piccola chiesa e attirava folle di fedeli da tutta l’isola. [..] Davanti al simulacro [..] stava l’incaricato del padre-ministro, ad armeggiare con un pennello sopra una tavolozza rudimentale impiastrata di una vernice scura. Perché, sissignori, era proprio alla Maestà di quella Madonna venerata che Tindaro, con mano che sembrò incerta (ma era forse soltanto ‘compresa’ della responsabilità), doveva rinfrescare il colore del viso, riportarlo cioè a quella tinta – testa di moro – che il canonico Alfio era certo fosse quella originale.” Scopriamo così che questo canonico Alfio aveva conferito tale incarico all’allora factotum dei Padri del Santuario, tale Tindaro Santospirito, di professione meccanico, che in un paio d’ore portò a termine la missione. Ma molti altri ricordi di Gazzara sono legati, per forza di cose, a tale culto; così ci troviamo catapultati nei “venerdì di maggio (mese dedicato alla Madonna)” che “erano i giorni detti ‘dei mandanicioti’. Questi mandanicioti erano evidentemente i pellegrini provenienti da Mandanici, una cittadina lontana un centinaio di chilometri. Ma a Tindari (o ‘al Tindari’ come molti ancora usano dire) chiamavamo con quel nome tutti quelli che – da qualsiasi località provenissero – arrivavano in pellegrinaggio il venerdì, rispettando naturalmente le precise regole che la tradizione imponeva. [..] Stazione di sosta rituale, seppur breve, era il villaggio di otto case ubicato al bivio che dalla Nazionale immette sulla strada provinciale del Tindari. Qui il capo-corteo con frasi in rima, incomprensibili e urlate, metteva all’asta lo stendardo: ‘cu chiù beni la voli chiù forti la chiama!’. Chi avrebbe dimostrato di amare maggiormente la santa Vergine chiamandola a gran voce, e sopratutto portando in offerta la somma più alta, vinceva la riffa, conquistando cioè il privilegio di portare lo stendardo lungo l’ultimo chilometro in salita che separa il bivio dal Santuario della Madonna. [..] Il ricovero per la notte, generosamente concesso dal canonico Alfio, era in realtà un fondaco, ma molto più simile a una stalla”.
Lo scrittore parla anche della nota festa del 7-8 settembre: “Il suono della banda mi svegliava tutte le mattine del sette settembre, vigilia della Festa del Tindari, poco prima delle sette. I festeggiamenti cominciavano infatti di buon mattino e sarebbero durati ininterrottamente fino al tardo pomeriggio del giorno successivo. [..] nessuno quella notte, né tra i pellegrini né tra i locali, andava a dormire, neppure i bambini.[..] Chi sa che cos’è la Feria per gli spagnoli può forse averne almeno un’idea.[..] Lo era [trasgressione ndr.] specialmente andare a mangiare la sera in una di quelle osterie per una notte che, sotto improvvisati tendoni, servivano costate e braciolette, salsicce e zamponi di maiali appena ‘sacrificati’, a vista, nel retrobottega della tenda, tra i grugniti disperati delle povere bestie, il fumo delle cucine da campo, l’odore intenso delle carni al fuoco…[..] Il menu era spartano ed essenziale, quello dettato dalla tradizione, o dalla devozione, come molti sostenevano, fermamente convinti che mangiare del maiale facesse parte degli obblighi del buon pellegrino. […] Si tenga presente che l’immenso mercato si protraeva per oltre una trentina di ore, senza interruzione, notte compresa. E’ impossibile calcolare quanti forestieri si riversassero a Tindari in quei due giorni di festa.” Sempre sulla festa poi conclude: “Ma certamente è scomparsa ormai per sempre la Festa del Tindari, almeno quella che io ricordo. Non più notti insonni, né bivacchi, né accampamenti. Ma la storia che il nostro regista narra in queste pagine è storia di un paese ancora ben popolato, alle prese con contingenze ordinarie, anche in periodi straordinari, come quello della Seconda Guerra Mondiale. Siamo nei primi anni ’40 e Gazzara, allora piccolissimo, si trova sfollato, insieme ad un centinaio di altri tindaritani del villaggio, nel Santuario, a pochi metri da dove i tedeschi in ritirata avevano allestito un’unità contraerea; qui sente tremare l’ampio corridoio durante un violento bombardamento e vede un corpulento Capitano del Regio Esercito sulla sessantina, nel panico più totale, trascinare via due bambini per prenderne il posto nell’angolo più sicuro dell’edificio.
Come abbiamo già evidenziato, centrale fu il ruolo di Mons. Pullano nella storia contemporanea del paese e Gazzara, testimone diretto di quegli anni, non manca di evidenziare nel suo volumetto questo evento. Particolarmente significativo a riguardo – dove è fotografata chiaramente la sensazione di un cambiamento tanto radicale quanto repentino – un paragrafo ironicamente intitolato E venne il tempo del nuovo Rinascimento! Qui si legge: “Alcuni anni più tardi, quando il vecchio ministro – per raggiunti limiti di età – passò a miglior vita, tutto cambiò al Tindari, dall’oggi al domani. Il passaggio successivo – e decisivo – nella trasformazione della statua e della chiesetta dalla fase tardo-medievale a quella di un nuovo Rinascimento (si fa per dire!….) coincise con la nomina del nuovo vescovo, ne fu anzi una ineluttabile conseguenza. La nuova Eccellenza manifestò subito l’intenzione di ammodernare l’intera diocesi e in particolare il Santuario della Madonna Nera (ora, per le ragioni che sappiamo, più nera che mai…). Poco oltre la cinquantina, solerte e intraprendente, Mons. Pullano pensò bene di dedicare le sue prime attenzioni proprio alla Madonna del Tindari. Vera e propria gallina dalle uova d’oro (parlandone con il massimo rispetto), la Bedda matri del Tindari attirava sempre più pellegrini, generosi portatori di assegni e bigliettoni di banca. (..) Sua eccellenza (…) stabilì cioè che si dovesse costruire un nuovo grandioso Santuario, insieme a un tempio ancora più sontuoso. [..] Sta di fatto che un’imponente colata di cemento calò su tutto quello che c’era prima. [..] presenziava con assiduità lo stesso Vescovo, che aveva una sua personale passione per il cemento, tanto che alcune soluzioni architettoniche (diciamo così) poi apportate all’opera erano sue, cioè da lui personalmente ideate e suggerite al fedele capomastro, che non esitava a metterle in pratica. [..] Quasi ultimata la struttura, ci si accorse che la superficie della Basilica occupava per intero la metratura che l’Ufficio Tecnico del Comune aveva concesso al tempio, che si affacciava sulla piazzetta antistante. E poiché il pavimento della chiesa risultava, a cose fatte, più alto di quasi un metro rispetto al suolo della piazza, si rendeva indispensabile la costruzione di una scala, o meglio uno scalone, di pochi scalini ma largo quanto il fronte del tempio. Nessuno pare avesse pensato a questo dettaglio. Su quale terreno costruire ora la scala, se quello destinato a questo scopo era stato occupato fino all’ultimo centimetro?”. Queste memorie , scritte di getto dal buon dottor Gazzara, noi continuiamo a saccheggiarle senza pudore (non ce ne vorrà per questo) perché entrano nel vivo del nostro sforzo di comprendere e di far comprendere alcuni fatti di cui, a quanto ci è dato sapere, nessuno fino ad ora ha messo adeguatamente in luce; così ci imbattiamo in un altro passo fondamentale: “Ce n’era abbastanza dunque perché già da lungo tempo venissero invocati – e accordati – il vincolo e la tutela di quel territorio. Non a caso, nessuno ha mai osato modificare o ristrutturare le casette del villaggio. Anzi, i pochi che avevano provato a chiedere alla Sovrintendenza alle Antichità l’autorizzazione a ripassare una mano di calce sui muri bianchi delle loro abitazioni (ormai da tempo scrostati e scoloriti) ne ha ricevuto sempre un secco rifiuto: tutta l’area del colle è zona archeologica e dunque tassativamente non edificabile né modificabile in alcun modo. A memoria d’uomo, dunque, costruire, ristrutturare, restaurare, ridipingere è qui assolutamente un tabù. Com’è giusto che sia. [..] Ebbene come sia riuscito Sua Onnipotenza ad ottenere dalla Sovrintendenza l’autorizzazione a devastare irreparabilmente tutta la zona, è un mistero ancora oggi celato nelle segrete carte, e del tutto inesplorato. [..] Ma nessuno osò fare, con la discrezione del caso, una verifica o qualche piccolo accertamento, o gettare anche soltanto un’occhiata a quel monstrum edilizio che prendeva sempre più corpo in dispregio a ogni legge e nella totale indifferenza di chi avrebbe dovuto impedirlo. Ecco perché, tra tutte le autorizzazioni ottenute, questa rilasciata dalla Sovrintendenza alle Antichità può ben definirsi la madre di tutte le licenze, di tutti i permessi, di tutte le concessioni, di tutte le sanatorie allegramente accordate, in sereno dispregio della legalità.”
Questa Tindari che cambia è anche quella che accoglierà il Festival e tutta una serie di manifestazioni svolte presso il teatro greco. Il Tindari festival nasce infatti nel 1956 con l’ “Aiace” di Sofocle diretto dal giovane barcellonese Michele Stilo. Andando qualche decennio in avanti non possiamo non sottolineare l’importante contributo dello stesso Gazzara, regista che ha esordito proprio al teatro greco di Tindari con “Le Trachinie” di Sofocle nel 1963 e che ha diretto il Tindari Festival dal 1996 al 2000. Egli ci racconta proprio del periodo in cui decise di accettare l’incarico di direttore artistico del Festival, di come si convinse, durante un sopralluogo con l’allora assessore Michele Spadaro, per via dell’entusiamo di due degli organizzatori, dottori che con le proprie mani ripulivano e tinteggiavano le pareti della sua ex scuola elementare per adibirla a biglietteria per il teatro. Furono cinque anni di gestione esemplare del Festival e del teatro e di ciò troviamo conferma da più fonti, non ultima quella del libro “Tindari – cronache del teatro dal 1956” di Filippo Nasca da noi già trattato. L’obiettivo di Gazzara fu quello di organizzare la produzione e di contenere il prezzo dei biglietti senza dimenticarsi mai di differenziare l’offerta con criterio, aprendo al moderno ed alla musica ma senza gli eccessi che spesso si sono visti in questi ultimi quindici anni (ricordiamo a titolo d’esempio un concerto di Renato Carosone ed un recital di Paolo Villaggio) perché, ci spiega, che “non si può adoperare il teatro greco come un campo di calcio”. Anche l’abbandono della direzione artistica fu un atto d’amore per il suo paese, non ritenendo condivisibili le cariche protratte per troppo tempo né, tanto meno quelle a vita e per dare la possibilità di un ricambio generazionale.
Oggi, e già da parecchi anni, Tindari è sede di cartelloni teatrali di un certo rilievo, come quello del “Teatro dei Due Mari” o come la rassegna “Tindari Teatro Giovani”, promossa dal Liceo Vittorio Emanuele III di Patti. Il Festival di TIndari continua; ma è stato di recente accorpato con le manifestazione che si svolgono d’estate in altre frazioni del comune di Patti.

La faccia buona della patrimonializzazione
Bene. Continuiamo a ricostruire un’altra Tindari, che non sia il luogo di studi archeologici o antropologici, né d’interesse religioso o turistico. Proviamo cioè a non cercare solo la bellezza che ci è offerta da questa grande società dello spettacolo, ma la bellezza di una quotidianità alle volte incerta, disperata, silenziosa ed infine occultata.
Prima che la postmoderntà si affermasse, cioè prima che il teatro greco superasse i suoi naturali confini e l’intera località divenisse un grande palcoscenico internazionale sul quale si recitano i ruoli del turista, dell’archeologo, dell’antropologo, delle guide turistiche, dei naturalisti, degli escursionisti etc, prima di tutto ciò vi era un paese, dove la vita era scandita dai ritmi del lavoro nei campi. Oggi i residenti di Tindari si contano sulle dita di due mani, ma durante il 900 hanno abitato qui più di 150 persone; gli abitanti si incontravano per le vie, suonavano in strada, litigavano, si amavano, giocavano etc. Forse fino ai primi anni ’90 erano ancora ravvisabili segnali di una vita decisamente diversa da quella odierna: la processione della Madonna Nera del 7 settembre attraversava ancora il centro storico fino al Teatro antico; i pochi bambini giovano all’esplorazione del territorio; la scuola elementare era attiva presso l’edificio posto di fronte all’ingresso dell’area archeologica.
La chiusura della scuola elementare di Tindari ed il previsto accorpamento con quella della frazione Scala, riuscì a mobilitare ancora un senso comunitaristico: una dura protesta fu condotta dai pochi residenti, che occuparono il plesso e successivamente rifiutarono in modo unitario di iscrivere i propri figli all’istituto di Scala, optando per le scuole di Patti e Oliveri. Finita anche questa esperienza, la colonizzazione culturale andò verso il compimento definitivo.
Oggi Tindari mette in scena lo spettacolo della vita, evoca e richiama ciascuno a meravigliarsi del passato, della bellezza paesaggistica, delle forme di arte che ospita, allontanando da tutto ciò le attività umana che possono rovinare queste utili bellezze. Pensiamo, ad esempio, alla polemica sull’antiesteticità della bancarelle sulla via Mon. Pullano bassa, che nelle intenzioni dell’amministrazione comunale di Patti andrebbero occultate nel parcheggio degli ulivi.
Stiamo parlando di un meccanismo che vale ovunque, in ogni parte del nostro mondo postmoderno, nel quale Tindari spicca perché le resistenze operate dall’ordinario svolgimento della vita dei suoi cittadini sono residuali.
In questi luoghi vivono comunità diverse: di sentimento ed economiche, che non hanno bisogno di essere tindaritane. Questa porzione di mondo appartiene a tutti, proprio perché non è di nessuno; la stessa cosa vale per Madonna: condizionata dalle esigenze dei grandi flussi, costretta a prendere la strada e ad essere alla testa di una sfilata svolta in percorsi sempre più funzionali, perché, appunto, anche “la Madonna è di tutti”.
Di questa costruzione sociale dei luoghi possiamo vedere altre implicazioni. Di recente, avviati con una determina dirigenziale del 2010, sono stati effettuati “lavori di adeguamento ambientale” della strada provinciale 107 Tindari-Locanda, ovviamente a spese dell’ex Provincia Regionale, nei quali è ricaduta anche l’installazione di immagine votive che richiamano la Via crucis. Segnali opposti vengono della realizzazione – due anni fa – di un mosaico e di un murale sulla via Mons. Pullano, ad opera di artisti locali, con l’intento ufficiale di abbellire un tratto di muro altrimenti spoglio e grigio. Iniziativa, quest’ultima, alla quale avrebbe dovuto seguire la creazione della cosiddetta “Piazzetta degli artisti” – proprio al di sopra dei muri dove risiedono le citate opere – per volontà dell’associazione “Tindari Cultura” e dell’associazione “Artisti per caso”; al momento, però, è tutto fermo.
Gli altri interventi “urbani”, in quest’area del comune di Patti, riguardano il rifacimento di asfalti e parcheggi, l’illuminazione pubblica e poco altro. C’è poi una forte polemica sulle condizioni in cui versa gran parte dell’area archeologica e della riserva. Non di rado l’amministrazione comunale congiuntamente alla Sovraintendenza è dovuta intervenire per il decespugliamento e per la disinfestazione dell’area degli scavi e del teatro, soprattutto contro la presenza di zecche. Ma scarsamente attenzionata è l’area delle antiche mura e delle colonne che lambisce il vecchio centro, sul versante sud; gli anziani residenti, con i quali abbiamo amabilmente colloquiato, si lamentano delle erbacce e della presenza di topi e serpenti. Paradossalmente, quando nel decumano mediano c’erano le vigne – che scavate in profondità nelle terre forti portavano alla luce grandi ricchezze – e sul versante sud si apriva la strada per le campagne coltivate fino a Locanda, attraverso sentieri oggi abbandonanti, i problemi odierni non esistevano. Oggi i vecchi del villaggio sono debitori solo ai gatti, che portano i topi sui tappeti per far vedere ai padroni di aver svolto bene il loro compito.
Al di là di un valutazione di merito su quanto sia efficace o meno il lavoro della Sopraintendenza, dell’ex Provincia e del Comune o su quanto sia giusta l’autorità ecclesiastica, notiamo che a polemizzare e ad interessarsi in caso di disservizi, sporcizia e bruttezze varie sono sempre più spesso i cittadini dei comuni limitrofi o di ogni parte del mondo: tenere pulito, abbellire le strade, ristrutturare e far funzionare i servizi non per gli abitanti, ma per i visitatori. Con che frequenza, infatti, un pattese che non vi risiede, parla delle condizioni di decoro urbano o della condizione dei servizi della frazione San Cosimo? E che dire di “Scala”, “Moreri” ecc? In questa nostra contemporaneità ci sono luoghi messi in ombra e altri luoghi messi in luce dalla loro funzionalità sociale. È chiaro che rispetto alle potenzialità economiche e simboliche di Tindari, tutto il resto è meno importante. Azzarderemmo che è meno esistente.
La messa in valore delle antichità è figlia di quella cultura aristocratica europea, trasferita poi alla nuova classe dominante, cioè la borghesia. Dal “Grand Tour” di Jean-Pierre Houël che passa da Tindari per descriverne le rovine nel 1776, al turismo di massa degli anni 2000 il passo è più breve di quel che sembra. Cambia che, per dirla come Guy Debord, l’acquisita indipendenza della cultura finisce per negare la sua libertà; tant’è che, nel caso del Grand Tour, l’obiettivo di una più completa formazione dei giovani rampolli viene via via sostituita da una moda diffusa del viaggio verso la fine del settecento; poi, in una società rivoluzionata, dalla mercificazione e da un crescente consumismo.
La conservazione delle antiche rovine, la loro funzionalizzazione e quella delle festa religiosa, non sono fatti statici ma muovono azioni, quindi vite. Se è dunque possibile sostenere che Tindari sia, per certi versi, un non-luogo, allo stesso tempo è evidente che qui si esprime qualcosa di umanamente significativo, di reale. Tindari, nel suo processo di patrimonializzazione culturale, rappresenta insomma qualcosa di oscuro se guardato attraverso le categorie precedenti, ma testimonia il passaggio determinante ad una società che ha rotto una serie di confini materiali e cognitivi; tende a sfuggire, infatti, ad una disciplina riferibile ad un’amministrazione comunale e la sua esistenza toponimica riguarda non una comunità fondata sull’appartenenza territoriale, ma una necessità sociale di consumo.

L’Indiegeno Fest
Da due anni a Tindari, presso il Teatro Greco, si svolge l’Indiegeno Fest, un festival musicale nel quale si esibiscono artisti della scena indipendente o comunque non commerciale. Ecco la lista completa di chi ha già calcato questo palco: Marta sui Tubi, Brunori Sas, Di Martino, Nicolò Carnesi, Management del dolore post operatorio, Bottega Glitzer, Gnut, Cassandra Raffaele, Colapesce, Tommaso di Giulio, Levante, Niccolò Fabi.
Nell’ultima edizione c’è stato anche un “Pre-fest” – sollecitato da alcuni pattesi interessati all’organizzazione di questi eventi e alla musica indie – destinato a ripetersi nelle prossime edizioni. Questo assaggio di festival, in cui si sono esibiti artisti regionali emergenti o di recente affermazione, si è tenuto in un’unica serata a Mongiove, presso la località “Grotte”. Dalla prossima edizione, stando alle intenzioni degli organizzatori, il Pre-fest dovrebbe svolgersi in più giorni ed in molteplici luoghi, principalmente in giro per il territorio comunale di Patti.
Ad organizzare il tutto è la “Leave Music”, società ed etichetta discografica con sede a Roma, il cui ideatore e direttore artistico è Alberto Quartana.
Alberto è un musicista e produttore messinese, che fin da giovanissimo trascorre le sue vacanze a Patti; in particolare a Mongiove, dove possiede un’abitazione. Si dice innamorato di questi luoghi, che chiama “casa mia”, tanto da decidere di realizzare qui un importante festival musicale. Ci racconta di come dall’idea alla realizzazione il passo sia stato davvero breve, perché l’entusiasmo è stato fin da subito contagioso; inoltre ci spiega che nell’organizzare un festival è stato mosso dalla sua passione giovanile per questo genere di eventi, i quali consentono di ascoltare tanti artisti nella stessa occasione, di incontrare molta gente diversa, di moltiplicare le sensazioni e le emozioni.
L’evento ha rappresentato un importante investimento finanziario della Leave Music, che non ha goduto di sponsorizzazioni né di contributi pubblici; investimento che, in questi due anni, seppur in perdita dal punto di vista finanziario, ha cercato di fissare le basi per <>, tuttavia <>.
La macchina organizzativa di questo festival arriva qui, un po’ come arrivano degli alieni, guidati soltanto dall’amico Alberto e con gli interessati subito affascinati dalla bellezza di questi luoghi. Ma a dispetto del nome, qui di indigeni ce ne sono sono ben pochi. Con una battuta dicevamo al nostro interlocutore che forse il segreto della riuscita del Festival era proprio questo! Eppure le significazioni di tutto ciò sono molteplici. Leave Music non è un’associazione di pattesi, tanto meno di tindaritani, intenzionati a cambiare le sorti dei luoghi che abitano; essa è una società, che promuove la musica, i musicisti e tutte le buone pratiche che ruotano attorno alla musica.
La condizione di chi scrive questo articolo è molto complessa, perché fin dal primo anno ,alcuni di noi stanno cercando di promuovere l’evento e di partecipare indirettamente all’organizzazione. Tuttavia, anche senza il nostro interesse, il nostro avvicinamento, l’Indiegeno si fa lo stesso, coordinando le sue attività da Roma. Sul territorio ci si muove per ottenere autorizzazioni, la compartecipazione degli enti pubblici, qualche sponsor; ma la testa è altrove, così come le risorse principali: finanziarie o umane che siano.
Abbiamo chiesto al nostro interlocutore perché avesse scelto il Teatro greco; ci ha risposto che secondo lui <>.
L’Indiegeno Fest, a differenza di altri festival musicali della zona, si svolge, infatti, in un contesto distaccato dalla vita quotidiana di una comunità, una porzione di mondo – come abbiamo avuto modo di notare – che si presenta come un grande palcoscenico, avvolto da un’aria di sacralità. E’ il luogo simbolo di una cultura alta, moderna, razionale, legata storicamente al concetto di turismo.
Proporre a Tindari un festival di musica “indipendente”, sembrerebbe volerci dire qualcosa di più, anche nel senso di una differenza qualitativa nei flussi turistici. Ma, in primo luogo, se è vero che c’è un turismo balneare e un turismo culturale, la radice resta comune; in secondo luogo il prezioso cantautorato che è possibile apprezzare durante l’Indiegeno Fest, con le sue musiche raffinate e a tratti innovative, è già, in parte, nel DNA delle nuove generazioni delle classi medie e medio-alte, cioè di quelle che frequentano da tempo il Teatro greco e i suoi spettacoli.
Nessuna rivoluzione insomma; piuttosto un’operazione di accrescimento della qualità, che punta al coinvolgimento delle nuove generazioni.
Notiamo che quello che non fa questo festival è mettere in mostra un suo programma politico e sociale. Nessuna ambizione manifesta di volere incidere – con proclami o attraverso iniziative ad hoc – nella revisione ideologica della vita dei singoli, della società, nella sua filosofia, nelle sue modalità organizzative; niente di tutto ciò, fatta eccezione, come già detto, per il discorso sulla cultura (quella cosiddetta “alta”, intellettuale) e il discorso sul turismo; due facce dell’identica medaglia.
Il turismo, in effetti, è ormai un motivo fondamentale dell’economia formale, una priorità sistemica che non ha bisogno di rivendicazioni ideologiche; è facile notare come esso finisca per mettere d’accordo un po’ tutti, anche dopo lunghi dibattiti. Allo stesso tempo, la necessità di promuovere una cultura alta è un sentimento che ha permeato tutte le classi sociali, le quali avvertono la propria posizione di inferiorità e vogliono elevarsi.
Abbiamo notato che il ricorso alla retorica su questi temi è centrale in tutta l’intervista ed in tutte le chiacchierate che abbiamo fatto con il nostro amico organizzatore, tant’è che parlando di Patti ci dice che secondo lui <>.
La prospettiva di manifestazioni come questa, dunque, pare la messa in valore del territorio, che sfrutti la carta della bellezza: l’antichità, la storia, le spiagge, il mare, le montagne, la bontà dei prodotti eno-gastronomici. Un discorso in linea con le tendenze della borghesia europea.
Ci sembra, insomma, che questo Indiegeno Fest, a dispetto di molti altri che tendono ad essere ideologici, sia un prodotto genuinamente artistico, genuinamente intellettuale e genuinamente postmoderno.
Sincero e genuino è anche Alberto Quartana, che insiste a sottolineare la necessità di una musica fruita attraverso la bellezza dei luoghi; essa crea – ed ha creato già – <>, gradevole per tutti; un ambiente dove c’è serenità e voglia di stare insieme. <>, dice.
Noi abbiamo chiesto se attraverso eventi come questo si possono veicolare trasformazioni culturali; la risposta è stata che certamente è così, ma che non è il singolo evento a fare il risultato, piuttosto si tratta di una costruzione fatta di tanti passaggi, in cui si decide di investire su obiettivi di lungo periodo.
Dice Alberto: <>. Ma questa crescita egli non l’ha riferita a trasformazioni paradigmatiche della realtà sociale, a innovativi stili di vita e all’applicazione di nuovi modelli politici. Lasciando la crescita libera da questo tipo di additivi, è probabile che egli stia parlando di un incremento delle attività umane, dell’operosità e quindi dell’economia formale, attraverso l’intensificazione dell’economia della cultura e dell’arte.
Discutendo, infine, sul ruolo della politica ci è stato detto che al momento <>.
Non resta che chiederci cosa sia oggi la musica indipendente.
C’è un grande dibattito in merito e ci sono giudizi spesso eccessivamente zelanti nei confronti di questa o quella tendenza, questo o quel gruppo, questa o quella casa discografica. Non è invece una questione di giudizi di valore quella da porre, soprattutto quando (in fondo sempre) si è al cospetto di forme dell’espressività umana. Piuttosto, interessandoci di significati, ci chiediamo se davvero esista una musica indipendente. In questa forma, così banale e generica, la domanda ha come risposta, con un certo grado di approvazione da ogni lettore, che no, non esiste tale indipendenza. Ma se ancora si discute circa una “vera” musica indipendente ed una che invece strizza di più l’occhiolino al grande pubblico o ad una elité (dibattito reale e davvero disgustoso), bisognerà piuttosto giungere alla ricerca delle modalità e delle forme di dipendenza che interessano queste musiche e questi artisti. Ci sarebbe bisogno di mille altre parole, di mille ricerche certamente più approfondite; limitiamoci a segnalare che i fenomeni sociali sono tutti interdipendenti e che, ad esempio, a dispetto di quello che si può pensare, qui a Tindari c’è l’ambiente “giusto” per un festival come l’Indiegeno.
Ardò
Il Punteruolo Rosso
Foto: Ardò, Elisabetta Zammataro.

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