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Puntata IX

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Quei giorni sui pedali

15 Marzo 2018 Racconti


Chiusi gli occhi per un istante, allargai le braccia lasciando che l’aria attraversasse il mio corpo. Ebbi la certezza di volare, sì, volavo, non come uno di quegli uccelli predatori che si tuffano in picchiata per afferrare la preda ma come il più bistrattato fra quelle creature, il gabbiano! E mi tornava in mente la storia del gabbiano Jonathan Livingston.
Scollinai per primo, mentre dei compagni si erano perse le tracce. Ma c’era ancora da affrontare l’ultima salita, la più difficile, quella che mi avrebbe portato in cima alla pineta. Sentii lo sforzo mettere alla prova i miei muscoli; ogni singola pedalata infatti produceva ormai grande dolore, il cuore pulsava all’impazzata ed i polmoni, come vecchi ubriachi, chiedevano sempre più ossigeno, ma non potevo cedere, «non cadere! non mollare!​» mi facevo forza.
I pensieri si fecero sempre più confusi e ritornai con la mente alle prime volte in cui uscii in bici.
Tutti avevano bici modernissime, costruite in lega leggerissima, cambio al manubrio e pedali con gancio automatico; ed io? Beh, io mi presentai con la vecchia Bianchi con cambio Campagnolo sulla barra verticale e pedaliera a gabbia. Risero tutti… “ Perché ci vieni dietro? Va a casa, bambino! Questo è uno sport duro!”. In tutta sincerità non mi sarei mai atteso – e all’epoca ci tenevo – un accoglienza così fredda, ma non mi persi d’animo, anche il giorno dopo rimontai in sella e aspettai il passaggio della locale squadra ciclistica. Niente, anche quella volta nessuno mi tenne in considerazione, riuscivo a stargli accanto per chilometri e loro niente, indifferenti. Andammo avanti così per molte settimane, fin quando non arrivò il giorno in cui li superai. Uno scatto felino, una volata a perdi fiato. Il loro capo, più anziano, più esperto e furbo di tutti, all’improvviso disse in maniera falsamente disinvolta: “ Questo ragazzino sta bene in sella!”. Tutti allora gli fecero eco: “ Ha una bella pedalata!” udii da uno, “ E’ un buon passista!” aggiunse un altro. Così a poco a poco, mi chiesero sempre più insistentemente di inserirmi nel gruppo, di diventare come loro, ingabbiato nella rete, guidato dagli identici meccanismi e dalle medesime regole che quegli uomini avevano fissato per il loro gioco. Ricordai i consigli degli anziani su come nutrirsi e su come dosare le energie per evitare malori e crampi, le pacche sulla schiena… ma quello non era il mio gioco, non avrebbe potuto esserlo mai. Così ricordai le cadute ed il dolore, la fatica, a volte talmente insopportabile da farmi venire la nausea, per riuscire a staccarmi e andare avanti, da solo; sapevo che molti avrebbero confuso la mia voglia di libertà per eccesso di agonismo, sapevo anche che non era cosa facile, ma, oramai era certo, era quello il mio gioco, quelle le mie regole.
Intanto la salita si fece sempre più dura, la pendenza mi costrinse a tornare con la mente sulla strada, le forze mi abbandonarono, caddi.
Ripresi la bici voltandomi, dietro non sembrava giungere nessuno, mi feci coraggio. Mi accorsi di essere scivolato perché, senza essermene reso conto, ero arrivato nella parte sterrata del tracciato. La vegetazione si faceva sempre più fitta con una varietà sempre crescente di alberi. Ero immerso in uno di quei silenzi che producono parole, armoniose melodie che mi incitavano a continuare per poter godere fino in fondo della vista di quel paesaggio, lì dove i Nebrodi sfoggiano la loro veste più suggestiva e più vera. Quella natura era il mio gioco, gli alberi e le piante di quei monti i miei compagni.
Alzatomi sui pedali bruciai le ultime energie riuscendo a raggiungere l’agognata meta. Mi accolse un laghetto, mi sdraiai sul bordo. Non potevo credere ai miei occhi, guardandomi intorno fui immerso da una natura incontaminata e da un paesaggio da favola, abbassando il capo potei pure ammirare l’immensa bellezza del paesaggio sottostante. Fu la mia vittoria, la più bella, l’unica di cui avrei voluto raccontare. Lì, in quella terra, nella mia terra, trovavo me stesso.
Gli altri, giungendo alla spicciolata, non videro il laghetto, non il paesaggio sottostante, non gli alberi, solo me videro. Non capivano, proprio non riuscivano… e stavano lì a confabulare su quale strategia avessi utilizzato. Li sentivo, in disparte, mentre dicevano che avessi un trucco. Si beccavano fra loro, proprio non riuscivano a capacitarsi e continuavano a guardare senza vedere. Mi sorridevano e giù di nuovo con le pacche. Sorrisi anch’io e ridiscesi giù, sempre come un gabbiano… forse un giorno avrebbero capito.

Armando Di Carlo

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