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L’inverno che Patti non ha avuto. (Il Teatro quando c’era)

17 Marzo 2016 Articoli per SenzaPatti


“Il teatro per la sua intrinseca sostanza è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali si formassero questa precisa coscienza del teatro considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco”

Paolo Grassi
L’inverno – almeno quello astronomico – sta per concludersi; non restano che tre giorni e, oltre alla neve, a latitare c’è stata qualche altra cosa, passata totalmente sotto silenzio: la stagione teatrale invernale comunale! Ma perché nessuno sembra sentirsi defraudato di qualcosa d’importante? Abbiamo lottato per anni e anche duramente per ottenere “spazi” aperti alle compagnie locali, alle rassegne pubbliche e, caspita, sì che le abbiamo ottenute queste belle cose e anche giustamente e doverosamente. Ora non ci interessa più? Non lo consideriamo dunque importante il teatro “pubblico”? O siamo davvero così rassegnati da cedere al “silenzio passivo” e, dunque, da non avere voce, ancorché flebile?
Qualcuno dirà, beh, che importa, tanto c’è comunque una rassegna! Eh no, importa invece, perché quegli spazi conquistati, certificati da regolamenti, inseriti nei bandi etc., erano e sono nostri e non sono stati sfruttati.
Si dirà pure che non si è potuto per via del bilancio o che comunque si spendono troppi soldi per queste “cose” e che non c’è un tornaconto. Tutto falso e cercherò di spiegare il perché con parole mie e, sopratutto, col contributo di parole molto più pesanti delle mie.

“Il teatro è l’unico luogo dove l’essere obliato può essere rammemorato. Qui il pensiero che si richiede all’attore, allo spettatore, non è un pensiero utile, un pensiero dispensabile, divisibile, ma è un pensiero in-utile, non divisibile, indivisibile, cioè in-dispensabile. Tutto per sé e per l’altro, tutto intero. Ciò che è utile lo possiamo dividere con gli altri, ciò che è indispensabile dobbiamo prendercelo tutto. Questo è il vero problema, il teatro è inutile, ma indispensabile. Ma come, io non sono mai stato a teatro, dice un signore, eppure vivo benissimo. Oh, sì, sì, vive benissimo, ma forse esiste male”

– Gabriele Lavia

Qualcuno forse ha pensato che due “cartelloni” per un paese possono essere anche troppi; io non lo credo per niente; ma se proprio qualcuno dovesse perseverare nel pensarlo, converrà con me che, per quanto belle, lodevoli, economiche e via dicendo possano essere le iniziative del privato, è l’attività pubblica che deve avere l’assoluta priorità.
Ovviamente se quest’anno le cose sono andate come sono andate le cause sono molteplici e non tutte così manifeste, cristalline. Una cosa è sicura, a differenza degli anni passati – con buona pace delle tanto declamate “politiche culturali” -, si è pensato che l’attività teatrale non fosse una priorità e la si è tagliata. Per pensare questa cosa si dev’essere però notato un disinteresse, una disaffezione. Non siamo arrivati al nulla dal nulla, siamo arrivati al nulla da tante aspettative, da tante belle cose fatte in questi anni e poi vanificate. Man mano le nostre attività (chiamiamoli cartelloni invernali giusto per semplificare il concetto) teatrali hanno perso in personalità, hanno perso tasselli d’anima, tanto da farsi assorbire da altri tasselli d’anime non nostri. Per dirla apertamente, da progetti originali, frutto di ideali vivi e condivisi da questa comunità, ci siamo ritrovati ad avere “cartelloni” impersonali e improvvisati, omologati. Siamo scivolati senza rendercene ben conto dal “Teatro” allo “spettacolo”; gli stessi “spettacoli” portati in giro a Messina, Milazzo, Barcellona, Capo d’Orlando, sono arrivati anche qui. Beh, di cartelloni siffatti, in effetti, non se ne sente proprio il bisogno. Non ci servono gli “spettacoli”, ci serve – come l’aria che respiriamo – il teatro. Da qui la disaffezione, anno dopo anno, delle persone.

“Per me l’approssimarsi al finale è, ogni volta, l’ultima volta. Io non penso mai che il giorno dopo ci sarà la replica. Non c’è questo fatto, c’è semplicemente una volta sola. Forse questo passa la ribalta. E quindi questo cosa dà di sensazione al pubblico? Che è l’ultima volta, che è la sola volta, che è l’unica. È questo l’unico limite del teatro, che ci sono le repliche. Dovrebbe essere una volta sola. Dare l’impressione che sia una volta sola è successo, qualche volta, nella storia del teatro. Si diceva così di Artaud. C’è una testimonianza di Gide che ha visto una volta Artaud e ha detto “non è possibile pensare che domani lui faccia una cosa come questa, sarà impossibile”. Magari poi accadeva, ma era comunque impossibile pensarlo. È un unicum”

– Giorgio Albertazzi
Io ho creduto e credo molto nel teatro e in chi fa teatro; il teatro è – o dovrebbe essere nelle intenzioni, nella sua astrazione – comunione, partecipazione, comprensione, informazione, educazione e tante altre belle cose.
Era mia intenzione – ed in parte lo è ancora, nonostante le diatribe, le gelosie e gli egoismi che vedo montare fra i nostri addetti ai lavori – dare vita ad una serie di iniziative (articoli di approfondimento, incontri, dibattiti con direttori artistici, registi, attori e maestranze) per promuovere quest’arte.

“Io penso che tutto il Teatro sia civile, e ti dirò anche di più: penso che tutto il Teatro sia politico. Nel senso che il Teatro è un atto pubblico, qui ci stanno 700-800 spettatori, io faccio spettacolo per sei giorni, e questo significa che vengono qui 3500-4500 persone. Questo è fare politica. […] Fare politica significa (da polis) stare nella città, essere un cittadino che si occupa della città, delle cose che riguardano anche gli altri. Tutto il Teatro è civile, tutto il Teatro è politico, anzi, tutto il Teatro è politica. Bisogna che l’artista, proprio come artigiano del Teatro, si prenda carico di questa responsabilità che ha”

– Ascanio Celestini

L’acceso fervore verso tale attività, che aveva caratterizzato questi ultimi cinque anni e qualcuno di quelli precedenti a Patti, ( unitamente alla congiuntura che vedeva in crisi molti grandi teatri di città e lo spostamento delle compagnie verso le periferie) mi aveva spinto a credere che fosse possibile costruire qualcosa che andasse oltre la semplice messa in scena degli spettacoli. Avevo proprio creduto, per qualche tempo, che Patti potesse essere in grado di fare quadrato intorno a questa prospettiva, di fare quadrato intorno al suo teatro, senza personalismi (perché , appunto, teatro è comunione, avvicinamento, solidarietà). Avevo proprio sperato che Patti, libera dalle industrie, dal turismo di massa e da tutte quelle cose che soffocano molte altre realtà, potesse essere capostipite e faro di un “nuovo” modello di sviluppo, uno sviluppo culturale, sociale, “politico” prima ancora che economico. Ho immaginato in questi anni scuole pubbliche di scrittura teatrale, di recitazione, di regia, di scenografia e via dicendo, enti pubblici di gestione.
All’epoca delle lotte per la riapertura del Comunale (parliamo degli anni 2009/2010), avevo cercato di rendere fisiche, tattili, concrete queste mie idee con un progetto artistico che chiamai “Segnali di fumo – gli artisti sono fuori”. Era, invero, un progetto molto ambizioso che voleva coinvolgere tutti gli artisti locali in una sorta di teatro totale, una baraonda di istanze e arti che, nell’intento, avrebbe dovuto rendere teatro l’intera città parlando dei suoi problemi, da Contrada Monte alle più lontane e sperdute frazioni. L’obiettivo era quello di mettere in scena le problematiche delle varie zone proprio lì dove esse si presentavano; così, ad esempio, gli indiani avrebbero dovuto inscenare i loro “segnali di fumo” direttamente da Contrada Monte per simboleggiare la perdita delle radici, della memoria, del patrimonio culturale, morto e sepolto in “riserve” non tutelate, così dei “frati” avrebbero dovuto percorrere la via che porta dal San Francesco al Municipio ammonendo i passanti ed urlando “Penitenziagite” alle porte di quest’ultimo e via dicendo.

“Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono, etc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta. Questa è un’antica verità teoretica, ovviamente. Mette alla prova la nozione di teatro come sintesi di disparate discipline creative; la letteratura, la scultura, la pittura, l’architettura, l’illuminazione, la recitazione…”

– Jerzy Grotowski

Questa cosa non riuscii a farla; però, limitando di molto i miei propositi, riuscii comunque, in qualche modo, ad aggregare numerosi artisti per un unico spettacolo, un flash mob. Codesto flash mob li vide (ci vide, più propriamente) impegnati per alcuni giorni in numerose ed anche, a volte, estenuanti prove per meno di un quarto d’ora di spettacolo su un mio testo che qui riporto per la valenza simbolica – per altro ancora attuale – delle parole:

Preludio ( entra un suonatore di corno e lo suona per breve tempo; entra Tony, testa china, si posizione al centro, alza la testa, si guarda intorno e parla )
Come non fòsse/ pòi sì /gran danno
Me ne sto qui/, chiùso/ da quasi_un anno!
Senza futuro/ è || il mio/ presente
In questo Comune indifferente
A me che vivo solo per la gente;
Non sento più|| il canto delle stelle
Né l’arte, ch’era libera, ribelle!
Però la forza delle_idee non muore;
Rinchiuso sì/ ma batte_ancora_il cuore!
( entrano tutti, in cerchio o in quadrato, immobili )
Or si vesta la città d’oricalco,
S’adorni le vie, fian esse da palco!
De’ vecchi guardiani più non mi curo,
Che l’artisti son fuori_e tengon duro! ( i manifestanti alzano i cartelloni di protesta, i pittori iniziano a dipingere )
Cos’è? Cos’odo? E’|| un gran fragore! (i musicisti partono a suonare)
Ohimè, è||un crescendo da tenore! ( i ballerini danzano al ritmo )
“siam qui, siamo noi, gli_artisti_in protesta, ( tutti in coro, alzando la testa e le maschere )
è per te, Teatro, che_alziamo la testa!”
Tiro su lo sguardo, vedo_un bagliore,
Diavolo, sono maschere d’attore!
Signori, grazie! Voi siete la cura
Ai miei pensieri,_ e_a chi me li censura.
“S’apra il sipario, s’aprano le stanze, ( tutti in corro, a muso duro, arrabbiati, braccia alzate )
ridateci cinema, teatro e danze!”

Tutto questo non era un’utopia, poteva essere realizzato se solo lo si fosse realmente voluto; in questi anni (ed almeno gli ultimi 50/60) abbiamo avuto nel nostro territorio il meglio che il teatro nazionale (e non solo!) potesse offrirci, anche (e sopratutto) grazie a Tindari. Ma tutto l’ immenso patrimonio umano, fatto di persone, di testi scritti da persone, di persone che hanno vestito i panni di altre persone o, ancor più importante, che hanno indossato i panni di istanze, idee, miti… tutto questo, ebbene, non è stato messo a frutto, anzi, lo si è lasciato sfiorire.

“Un popolo che non aiuta e non favorisce il suo teatro, se non è morto, sta morendo” – Federico García Lorca
Non si è voluto comprendere che l’esperienza teatrale non si esaurisce con l’esaurirsi della rappresentazione e che essa non è fine a sé stessa, che non è puro e semplice intrattenimento ma fatto sociale di primaria importanza.
“Ho sempre pensato che il Teatro fosse l’arte più moderna che esiste: l’evento artistico si verifica davanti ai nostri occhi come un miracolo. È un’arte tridimensionale e oggi, massacrati dalla virtualità delle immagini del piccolo schermo, dà emozioni nuove e inedite rispetto al passato.” – Vincenzo Cerami

Paradossalmente la funzione che ha da sempre svolto il teatro è oggi, al tempo dei potenti social network, dei mass media e delle comunicazioni sempre più globali e globalizzate, ancor più importante di una volta; nessun mezzo è più immediato, completo e “democratico” del teatro; il teatro è chiesa quando rappresentiamo i nostri dei o i nostri demoni, è riflessione solitaria e condivisa al contempo su miriadi di cose, il teatro è quella cosa che rende persino uno sbadiglio più potente ed evocativo di un “voto” buttato nelle urne, così come l’applauso o il fischio, così come le parole dell’attore, né più né meno.
“Il teatro non è un’ opera d’arte chiusa, è assolutamente aperta. Il teatro nasce davanti al pubblico, fa la nascita di sé ogni sera e quindi come va questa nascita dipende molto dal pubblico. Il pubblico non può determinare in maniera compiuta un cambiamento di significato dal punto di vista della struttura testuale del lavoro, ma il modo in cui lo accoglie cambia la circolazione di energia sociale che lo spettacolo produce. Quando si parla di energia sociale in circolazione o, meglio ancora, di energia sociale nei testi, non si può non riferirsi al teatro. A teatro l’energia sociale non è in circolazione soltanto dal testo, o nel testo, verso la platea, ma anche dalla platea verso il palcoscenico e così facendo, cambia segno, cambia importanza, si amplifica o si riduce in parte e modifica lo spettacolo alle porte di chi lo accoglie.” – Elio De Capitani
Ma il teatro può essere, ed è, anche l’esatto contrario di quanto appena detto, ed è anche questo il bello.
“Se il teatro ha una funzione è quella di rendere la realtà impossibile. Non mi interessa la riproduzione della realtà sulla scena. Mi interessa al contrario difendere la scena dalla realtà, portare in scena un’altra dimensione, un altro spazio, un altro tempo. Nell’ottenere questa distanza dalla realtà, c’è una sorta di godimento, un vero e proprio divertimento. Si tratta di togliere gli spettatori dalla realtà in cui vivono per fargliene vedere un’altra.” – Heiner Müller
Ma noi pattesi (o siciliani, o italiani) abbiamo totalmente smarrito il senso di tutto questo, forse perché abbiamo totalmente smarrito il senso di parole come “democrazia”, “dialogo”, “confronto”, “arte”, “partecipazione”, “collettività”, “volontà”. Il teatro non ha fazioni, non è né di destra né di sinistra, non è per pochi, non è per le èlite, non è per gli amici, non ha confini ed è forse questo che ci allontana e che ci spaventa; forse non sappiamo più stare al mondo, in simbiosi con l’altro, col diverso da noi, col dissimile e tutto questo anche quando ci sentiamo “aperti”. Abbiamo paura di stravolgere le regole, di perdere bussola e “posizione” sociale, abbiamo paura di guardarci intorno e vedere che magari c’è qualcosa di meglio di noi stessi, di più grande. Ci fa paura la libertà, che non è la pretesa “libertà” delle nostre “costituzioni” e delle nostre leggi e leggine da “occidentali”, con le nostre belle “democrazione” più fasulle e di cartapesta delle scenografie teatrali.
“Mi sembra che il teatro stia sopravvivendo nelle catacombe. Oggi, la catacomba, è il modo per affermare, con grande difficoltà, una fede. Se il teatro non ha fede, se si preoccupa solo del risultato immediato, se non è capace di fermarsi e resistere [..] il teatro è destinato a perdersi.” – Gianni Ratto
Noi, oggi, abbiamo smarrito il senso di tutto questo, l’abbiamo smarrito fra conti fatti male, fra particolarismi e personalismi – che sono fastidiosi sempre ed in qualsiasi ambito ma nel teatro di più – e anche nella banalità, nel compiacimento del momento, dell’immediato. La fiammella che si era accesa noi l’abbiamo fatta spegnere. C’era a Patti una stagione teatrale invernale, era viva, era condivisa, poi, via via si è smorzata, si è spenta.
“Tutto il teatro sarà in crisi finché si continuerà a credere che il teatro sia un raduno mondano, dove andare ad assistere alle recite con gli attori imparruccati che imparano a memoria i testi di chissà chi. Il teatro come lo si intende normalmente è un loculo, ed io non ho mai fatto quel teatro… Il teatro è uno spettacolo scandaloso, com’è scandalosa ogni cosa divina. E’ il mio testamento, non solo artistico ma anche privato. Il resto è nulla, non ci sarà nient’altro. Se non il buio sul teatro.” – Carmelo Bene
Possiamo tuttavia crederci ancora, possiamo ammettere di aver sbagliato molte cose in questi anni e ricomnciare; non cerco responsabili, non do colpe a questo o quell’altro amministratore, a questo o quel direttore artistico, a questo o quell’altro gestore, a questo o quell’altro regista; le colpe sono condivise ed io che scrivo non ne sono certamente esente, ma possiamo cambiare, cancellare tutto con un colpo di spugna e ripartire. Il teatro è anche questo.
“Il Teatro resta quello che è stato, nell’intenzione profonda dei suoi creatori. Il luogo dove una comunità liberamente riunita si rivela a se stessa, il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere” – Paolo Grassi
Io ho detto la mia, spero di aver sensibilizzato altri che da troppo tempo stanno in silenzio, seduti sulla riva del fiume, forse in attesa di veder passare il cadavere del proprio nemico, magari senza rendersi conto che a passare è solamente la propria immagine riflessa.
“Urge che il Teatro ritorni a essere qualcosa di vivo, di forte, che turbi i cuori inerti: una doccia al servizio dell’igiene morale, una doccia, un esercizio, un combattimento” – José Ortega y Gasset

Ardò (Armando Di Carlo)

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