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Infinite strade

22 Marzo 2018 Racconti


Prepotente si faceva largo la luce variopinta e fiamminga del primaverile meriggio fra le feritoie dell’alta torre di guardia.
Al di fuori di essa la vita esplodeva con ancor più fragore. Le colonne dei Greci e dei Romani, fagocitate dalla vegetazione e rose dal tempo, in quell’ora si inchinavano più riverenti alla forza della natura che le dominava riversandone le ombre a picco sul mare.
Di lontano si udivano, sparuti, i campanacci delle greggi al pascolo, d’intorno, sui rami, stormire di foglie e cinguettio di rosignoli suonavano come archi diretti dall’abile mano d’una brezza marina; a far da coro l’eco mista di onde e il garrire dei gabbiani. Questi ultimi, volando a pelo d’acqua, risalivano vorticosamente la rocca sfruttando le correnti ascensionali; donando così, finanche all’osservatore meno virtuoso o poco disposto, la sublime sensazione di volargli in groppa.
Peschi e aranci in fiore, gelsomino e rose selvatiche; persino dalle irte rocce dello strapiombo sul mare, sparse qua e là, apparivano toppe di fichi d’india già cariche di frutti e ginestre. Sì, era la vita che risorgeva, superando la tirannia di quell’inusuale gelido inverno.
Anche fra le vetuste pietre dell’imponente edificio però qualcuno voleva far rinascere la vita, in una forma nuova.
Due giovani erano intenti a trascinare un pesante baule lungo le rampe ripide e strette, fermandosi solo una volta raggiunta la sala sommitale della torre.
“Nunc bibendum est!” esclamò Francesca Lonnaco – giovanissima e brillante psicologa di Gioiosa Marea – rivolgendosi al suo compagno. Nello stesso istante, Giulio Reven – anch’egli ancora giovane e promettente scrittore di Patti – tirò fuori dal baule una bottiglia contenente una particolarissima mistura, aurea al fondo, argentea nel mezzo e plumbea in superficie.
Bevvero entrambi da quella bottiglia e lentamente si assopirono, l’una accanto all’altro, sotto lo sguardo distratto di una bianca colomba appollaiata ad una delle feritoie. Proprio in quell’istante il sole raggiunse l’orizzonte ed i suoi raggi investirono la bottiglia che, coricata al centro della sala, riversava le ultime gocce di liquido. La rifrazione fu tale che sprigionò verso le feritoie una potente scia d’oro, colorando anche la colomba che spicco in volo come avesse le ali di fuoco e ricamò l’aria con decori scintillanti. Per alcuni minuti la vecchia torre di guardia sembrò un faro dorato e molti di coloro che si trovavano in transito in quel tratto di mare rimasero affascinati nell’osservare tale fenomeno, per loro inspiegabile.
In paese però quei due lì non li rivide più persona alcuna; solo un vecchio custode, che faceva il giro di guardia, ritrovò la bottiglia e i loro abiti coi documenti e, ancora, un biglietto con su scritto: “ciò che è di Francesca e Giulio vale 1,618 g!” Lì vi trovò anche il baule, polveroso e sorprendentemente leggero per la stazza e per il materiale di cui sembrava composto. Il custode ebbe una certa sensazione di malessere nello spostarlo, o meglio, ebbe la fastidiosa impressione di non capirci più nulla, come se la gravità fosse cambiata, un certo nonsense fisico. Il baule aveva marchiata a fuoco nel cofano una scritta per lui incomprensibile: “ASCENDIT A TERRA IN COELUM, ITERUMQUE DESCENDIT IN TERRAM ET RECIPIT VIM SUPERIORUM ET INFERIORUM.”
Il vecchio dunque non comprese, ma non era minimamente turbato né – a parte l’episodio del baule che, comunque, avrebbe potuto essere dipeso da una sua sensazione distorta – eccessivamente meravigliato, conoscendo bene, sin dall’infanzia, le numerose leggende che circolavano su quel luogo.
Pensò che quei due fossero saliti lì per effettuare una qualche ricerca sul campo; tale ipotesi si rinforzò in lui dopo aver ritrovato un taccuino nei pantaloni di Giulio Reven nel quale erano appuntati alcuni di quei racconti sospesi fra mito, leggende e storia.
Da secoli Gioiosa Guardia era infatti meta di avventurieri, guerrieri, cavalieri, alchimisti, matematici, scienziati di ogni genere e, negli ultimi anni, anche di impavidi amanti del volo in parapendio; a ciascuno di essi il posto assicurava tutta l’energia di una terra concepita dagli dei.
Si narra anche che il famoso geografo e alchimista Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs al-Sabti avesse ivi condotto persino re Ruggero II per fargli dono di una preziosissima mappa; la più evoluta e pregiata carta topografica al mondo. Tale mappa era incisa in una grande sfera d’argento con incastonati dei diamanti in corrispondenza di alcune località ben determinate, fra le quali la stessa Gioiosa Guardia. Sembra che lo scienziato di corte abbia confidato al re che la mappa indicasse dei passaggi sicuri per non meglio precisiate “altre dimensioni”.
Passarono in seguito per quella torre numerosi grandi uomini come Fibonacci, di sfuggita per recarsi in Algeria, Goffredo di Buglione in viaggio per la crociata, Don Giovanni d’Austria prima della battaglia di Lepanto e ancora Francesco Giuseppe Borri, Cagliostro e il Conte di San Germano e, fra gli ultimi, Jules Verne.
Il taccuino di Reven si concentrava particolarmente su una sala nascosta della torre dove vi si trovava una misteriosa porta murata, variopinta e piena di simboli, con un arco nella cui sommità vi era incastonato un pentacolo con una scritta in arabo e in ebraico che così recitava: “Verso l’immortalità e l’eterna giovinezza.”
In effetti la porta esiste ancora, intatta, coi suoi strani simboli e con quella scritta che ha un’impressionante somiglianza con quella posta sulla tomba di Verne ad Amiens, in cui si legge: “Vers l’Immortalitè et l’Eternelle jeunesse.” Nella medesima tomba, inoltre, vi è effigiato in pregiato marmo lo stesso Verne che sollevando il coperchio della bara rinasce a nuova vita.
Su tale porta ci sono diverse leggende, una delle quali vorrebbe che riesca a comunicare direttamente con altre porte simili sparse per il mondo, ivi compresa naturalmente anche la nota Porta Magica di Piazza Vittorio a Roma. Questa porta fu fatta costruire nel 1680 dal marchese di Pietraforte Massimiliano Palombara, grande amico e protettore del Borri ed è l’unica, insieme a quest’altra meno nota di Gioiosa Guardia, ad essere ancora in piedi fra quelle note.
D’altra parte la porta e le iscrizioni non sono le uniche stranezze presenti nella torre di guardia; la struttura stessa dell’edificio è un meraviglioso mistero ingegneristico, in particolar modo l’ultima sala ha un aspetto davvero inconsueto essendo a forma di spirale aurea (o logaritmica), la stessa forma che tanto appassionava Fibonacci.

Passarono i giorni ed il vecchio custode continuava ad interrogarsi sulle sorti di quei due giovani: “Tutta questa storia potrebbe essere il frutto di una serie di strane coincidenze (se dobbiamo credere alle coincidenze) o, forse, quei due hanno semplicemente deciso di scappare in giro per il mondo e magari salteranno fuori quando meno ce lo aspettiamo” pensava, però sapeva dentro di sé che non poteva essere quella la verità, che qualcosa di insolito stava accadendo e viveva come sospeso, continuando a vigilare con cura sull’itera zona.
Un giorno, rincasando da uno di quei giri di perlustrazione, il vecchio Mauro Moretto si accorse di avere in tasca una stranissima lettera con sopra incisa una data di compilazione decisamente improbabile, in quanto ancora ben al di là da venire.
Non meno curioso ed improbabile era l’incipit di codesta missiva; una sorta di poesiola o filastrocca scalcinata che così recitava:
“O Fame! O Vita!
E se vi perdessi fra versi perversi e complessi?
O Fame! O Vita!
O se perdessi invece i miei versi, sommessi a cieli troppo tersi
E a pallidi chiari di Luna, avvinghiati in ridicoli amplessi?
O Fame! O Vita!
No! Non vi perderò né perderò quei versi
Perché animofogliuti cipressi,
Perché voi con loro, io con l’oro, li rivestiremo d’alloro,
Ci rivestiremo d’alloro perché così diversi dai falsi, così lontani da loro.
O Fame! O Vita!
Noi non moriremo come falsi profeti
Noi non moriremo perché siamo poeti.”

La missiva era manoscritta, vergata in elegante corsiva romana, e proseguiva con un testo ancor più oscuro di quello della poesia, per altro in tardo latino: “Ut lentissima fugit nox et variata sidera caeli exstinxerunt, principinus somnum cepit.
Brevis tamen somnus fuit, ita puer, cum reformidatus esset propter facem, experrectus est.
Leniter ille prominuit ad dirutas transennas semiclausas; duo radii flammei sufflavi produxerunt
Duo hominum cucullatorum, virum et puellam, umbras secundum semitam saxosam. Circum rus illum immensum, vipera, cum permanaret in roscida herba matutina, arenam movebat.
Ille puer olfecit homines, eos timuit, secutus est eos, ita vulpes inter lupi.
Cum homines in magna aedificatione pervenissent, principinus in occulto restitit ne quis eum videret.
Magnus fuit stupor! Homines cucullati minxerunt proximam iaunuae arborem auratam et repente intraverunt sinistro pede. Illìc ingentis magnitudinis homo dextra aedificationem altissimam – de camera ipsius pendebat horrenda lucerna – caseum tractabat in parvula cupa lignea ferruminataque terrae signo incisa, sinistra nanus uvam calcabat in ingens miraque cisterna ignis signo incisa, ita ut caput nani occultarerit a cisterna.
Tum puer actionem visam quicquam intellexit, hominibus recessis, ille ingressus est intra aedificationem et incitavit magnum lactarium ut novam visionem explanaret.
“Plane! – inquit monstrus – hoc est principium itineris lucidi obscurique, noli id transire sine ullo comite, pede dextro, nec sine ullo consilio!” nec quicquam dixit.
Tum principinus domum rediit.”
L’ultima cosa leggibile era, infine, una citazione di un passo di Fedro in cui si leggeva: “Thot inventò per primo il numero e il calcolo e la geometria e l’astronomia, ed anche il gioco delle pietruzze e dei dadi, ed in fine la scrittura. Egli si presentò al re d’Egitto, Tamo, e gli mostrò le arti che aveva ideato, offrendole in dono agli egizi. Quando ebbe spiegato i vantaggi della scrittura, Tamo fu molto contrariato: essa obbiettò il faraone, avrebbe prodotto l’oblio per la negligenza in cui sarà tenuta la memoria. La gente avrebbe sostituito la riflessione con la passiva lettura di un testo altrui. Così disse: “Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di costruire molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti.”
L’indomani Mauro il custode, volendo consegnare anche questa lettera alla polizia così come aveva fatto con indumenti e documenti dei due giovani scomparsi, ebbe l’idea di recarsi nuovamente in quella sala della torre per spostare la cassa che trovò lì quel giorno per chiedere che venisse anch’essa analizzata con maggiore perizia, cosa che riteneva impossibile da farsi in loco, in quella sala priva di energia elettrica.
Con una certa fatica, dato l’incedere degli anni, si inerpicò lungo quella ripida e stretta rampa. Giunto alla sala si sentì mancare il fiato; non tanto per la fatica – nonostante l’età era comunque un umo caparbio, dalla pellaccia dura – ma quanto per la sorpresa di quel che vide.
La cassa non c’era più – o almeno non nella forma in cui l’aveva lasciata l’ultima volta – ma al suo posto, nell’identico punto di prima, c’era una culla fatta dello stesso materiale della cassa e coi medesimi intagli.
Si avvicinò con non poca titubanza all’oggetto misterioso che in quei giorni tanto l’aveva turbato e, chinando il capo con circospezione, sporse lo sguardo al suo interno trovandovi un fagottino che si muoveva. “Mio Dio!” gli venne da esclamare; e ne aveva ben d’onde.
Sollevata la candida copertina apparve infatti un minuscolo bambino.
La creatura era certamente prematura; i medici che lo avevano subito preso in cura stabilirono che doveva essere nato da pochissime ore e che pesava 1.608 grammi.
Per capire di chi fosse figlio occorse parecchio tempo, ma il DNA parlava chiaro, i genitori erano indubbiamente Francesca e Giulio.
Mauro Moretto andava spesso a trovarlo in ospedale, in quella situazione assurda, avrebbe voluto prendersene cura ma era molto vecchio. Mentre il bambino si trovava in cura presso l’ospedale locale il problema dell’affidamento non era immediato ma sia Francesca che Giulio non avevano parenti prossimi in grado di potersene prendere cura; le speranze dell’anziano di potersi prendere cura della creatura non erano dunque vane.
Nel mentre, in un’altra dimensione…

“Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim”

Capo chino, spalle in giù come se sostenesse un troppo grave peso, scarpe da tennis grigio fumo indossate su pesanti calzettoni di lana, jeans a vita bassa ed una felpa con su stampati curiosi ed indecifrabili simboli completavano il suo abbigliamento casual e stravagante a un tempo.
Una cascata di capelli castani a coprire il volto e due grandi occhi marroni che vi sbucavano timidi e dolci.
Così si presentava Simara Pal mentre passeggiava mestamente sul ciglio di una strada che le appariva sempre più vuota, fredda ed estranea; mentre si rendeva conto che qualcosa lì non andava, che c’era nell’aria qualcosa di strano.
Mai prima d’ora aveva provato una tale pesantezza d’animo percorrendo quelle vie un tempo così solari e familiari che tanti dei suoi passi nel mondo le avevano reso lievi.
Sembrava, senza sapere perché, che la casa del mare fosse in pericolo, mentre una cappa di tristezza piombata dal nulla avvolgeva, lentamente, tutto.
Aveva urgente bisogno di un consiglio e sapeva già con chi avrebbe potuto consultarsi.
Aprì una delle tasche dell’ampia felpa e ne estrasse una manciata di succhi da viaggio; la forma e la consistenza era simile a quella dei palloncini, di diverso colore; ne mise da parte uno verde e lo bevve d’un sorso. Frugando con lo sguardo nella mano si accorse di averne solo un altro dello stesso colore, ma stimò che avrebbe potuto farsi bastare quello che aveva, tanto delle erbe, che normalmente crescevano rigogliose in quella stagione, non v’era traccia e non avrebbe avuto il tempo di scovarle e di distillare altro succo; sì, quello che aveva appena preso e l’altro, già riposto nuovamente in tasca, le avrebbero dato le forze necessarie per giungere alla dimora verde della sua amica Itit Steprot.
Diede da bere il contenuto di un palloncino azzurro al fido bassotto Oliver e montarono così sull’Onda di cristallo liquido ad energia magnetica e, finalmente, si partirono col cuore pesante senza un perché definito, decisi comunque ad intraprende quest’avventura per trovare il modo di capire e arrestare ciò che stava accadendo.
Il sole si spense nel golfo proprio quando i due l’asciarono l’ultima via del Capo, pochi raggi stanchi arrossavano ancora il mare infondendo nell’animo speranza di giorni ancora felici; ma la luna e le stelle non si erano ancora levate, in un batter d’occhio fu buio.
L’onda di cristallo rischiarava la via ma il cammino fino a destinazione sarebbe stato lungo e faticoso. Tutto d’intorno s’era fatto d’ombra e nulla poteva neanche la bianca luce dell’onda per definire i contorni delle cose; non una voce, non un cinguettio, solo il mesto e un po’ sinistro fischiare del vento. Simara cerò di sforzarsi a riportare alla mente se mai avesse vissuto simi sensazioni, altrettanta angoscia in passato, ma nulla nella sua vita, pur avventurosa a dir poco, aveva mai avuto questo sapore così amaro; sentiva la sofferenza come un qualcosa di ancestrale, come un’impronta, una scia di ricordi ereditata nel DNA da chissà quale lontano avo, ma fondamentalmente estranea a lei e persino alle sue paure più profonde.

CONTINUA…

Armando Di Carlo

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