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Giocasta – Edipo; Il mito dei miti vive a Patti grazie a Stefano Mollica ed al Teatro dei Due Mari

27 Aprile 2015 Articoli per SenzaPatti Teatro


P.Shelley

Ciascuno di noi, in una vita anteriore ha amato una Antigone; e ciò fa sì che nessun legame umano possa più appagarci

Prosegue a Patti, con “Giocasta – Edipo” del regista Stefano Mollica, il lavoro di rivisitazione del “Teatro dei due Mari” di quello che forse al giorno d’oggi è considerato il mito per eccellenza, quello dei Labdacidi, ossia la stirpe di Edipo.
In particolare, la maratona mitologica – avviatasi nell’estate del 2012 a Tindari con “Edipo – Antigone” di Antonio Silvia con Edoardo Siravo e Vanessa Gravina – si concentra su tre figure, Edipo, Giocasta e Antigone.
Si tratta di una sapiente commistione di diverse filosofie, drammaturgie ed interpretazioni che spaziano dalle imprescindibili opere di Sofocle a Seneca, passando per la generazione contemporanea con la drammaturga greca Dimitra Mitta (che rivolge la sua attenzione soprattutto sulla figura di Giocasta) e ancora Jean Cocteau, Elsa Morante e Ruggero Cappuccio.
Nel caso che ci riguarda più da vicino – la rappresentazione di Stefano Molica andata in scena al Beniamino Joppolo il 22 ed il 23 Aprile 2015 – è pressoché impossibile districare il gioco di rimandi, anche sottili, ai diversi autori che contaminano narrazione e, di conseguenza, personaggi. Ciò non dipende tanto dal numero – seppure elevato – delle fonti utilizzate, quanto dalla perfetta alchimia che il regista pattese riesce ad infondere alle sue opere grazie ad un intelligente studio a monte; Stefano Molica è un accanito lettore di testi teatrali e, soprattutto, traspare da ogni suo lavoro il divertimento della lettura che diviene automaticamente ri-lettura e ri-scrittura, ciò che conferisce ai suoi lavori un’inconfondibile impronta sperimentale, in perenne work in progress. E se in incipit citavo Percy Shelly (spiegherò poi perché) non era certo per evocare il “mostro” di Frankenstein partorito dalla penna della moglie Mary; in questo lavoro non ci sono cicatrici o cuciture orrende, tutt’altro; si tratta di un labor limae raffinato, moderno e profondamente intellettuale, intimista e psicologico, il tutto dimostrato e anzi accentuato dalla decisione di far muovere i personaggi in medias res.
A grandi linee possiamo dire che Giocasta è prevalentemente frutto del testo di Dimitra Mitta (c’è ben poco della Giocasta di Sofocle e di Seneca qui), una Giocasta “rivalutata” e “centralizzata”, non più casus belli, complice di Laio o passiva vittima del caso, ma essere senziente. Qui Giocasta – interpretata da Caterina Vertova con un quid in più rispetto alla performance di Tindari nel 2013 – è portatrice di una moralità, di una concezione della vita, di una verità e di esigenze contrapposte a quelle di Edipo ma non per questo meno credibili di quelle di cui è vittima/portatore il figlio/marito. La carica drammatica che da queste considerazioni scaturisce è notevole e carica di spunti di riflessione. Viceversa l’Edipo dell’opera di Molica non è il solito Edipo volitivo, in cerca di verità “costi quel che costi”, non è l’eroe che risolve enigmi e sconfigge mostri né quello espiante che si acceca; la verità gli viene rivelata quasi per caso, come per ripicca, dalla bocca di Giocasta quando egli inizia a comportarsi come si comportava Laio, ossia ad un tempo da tiranno, soprattutto nei confronti di Giocasta, e da uomo smarrito. Per citare Starobinski, in Giocasta –Edipo “Edipo non ha profondità perché è la nostra profondità stessa” e ancora un Edipo comparsa, alleggerito o, per dirla alla Cocteau, sbarazzato dalla polvere di capolavoro. Certamente più denso l’Edipo “vecchio”, istrionico, implorante, cieco e claudicante interpretato da Edoardo Siravo nella seconda parte (quella dell’”Edipo a Colono” per intenderci), meno convincente a mio avviso la prestazione di quello giovane interpretato da Cesare Biondolillo, un’interpretazione un po’ troppo lineare. Giocasta ed Edipo sono fissati, dipinti in movimento, specchio dei tempi, nevrotici e frenetici per forza di cose; da qui l’inserto di alcune tematiche che ritornano ossessivamente, come un refrain, in entrambe le parti in cui è suddiviso lo spettacolo, dal principio e fino alla fine.
Anche il personaggio di Antigone, figlia di Edipo e Giocasta, subisce qui una metamorfosi; da personaggio interamente umano (come sottolineava Bertold Brecht) a personaggio carico di magia e di divino; chiave di volta dell’intera storia, colei che regge il peso di tutta la famiglia (madre, padre, fratelli e sorella), depositaria della “vista” e ponte fra gli dei ed il destino immortale del padre. Ciò che rimane immutato nella figura di Antigone è il ruolo di “nume tutelare” di modello di virtù. La naturale dolcezza dell’interprete, Valentina Enea, ha assecondato e, direi, accentuato l’importanza del suo personaggio nel quadro complessivo della messinscena, da qui lo spunto per la citazione iniziale di Shelley.
Un ulteriore ruolo è stato assegnato al coro, sfruttato qui, a mio avviso, più come elemento scenico – o meglio, in sostituzione dell’elemento scenico scarnificato al massimo ma azzeccato – che come coro vero e proprio, votato più che altro a porre in evidenza certi stati d’animo di Edipo, quasi personificazione di tanti Edipi, tutti ritratti in sfumature diverse dello stesso identico disagio, del medesimo spaesamento e dell’eguale disperazione.
A margine non nuoce ricordare la particolare situazione che sta attraversando il teatro italiano, il ruolo che ricopre la provincia, la periferia, rispetto alle aree metropolitane e le problematiche di natura economica e culturale bene inquadrate (con anche battute al vetriolo), in conferenza stampa, da Edoardo Siravo, intervenuto nella doppia veste di interprete e presidente del “Teatro dei due Mari”, ente che, come da diversi anni ricordiamo, è coinvolto a pieno titolo in queste problematiche. Questi ulteriori argomenti saranno tuttavia oggetto di accurato approfondimento, all’interno della nostra testata, di un servizio video.
Ardò (Armando Di Carlo)

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