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Cenere: niente di buono tranne il nome.

10 Dicembre 2015 Articoli per SenzaPatti Cinema Stroncature


Giorni fa ero stato informato dell’imminente proiezione in prima nazionale del film “Cenere”, lungometraggio del regista pattese Simone Petralia di cui mi si diceva gran bene; così mi sono armato delle migliori intenzioni per la visione di stasera (ho persino fatto la fila al botteghino sic), speranzoso di dir bene del compaesano. Bene, dimenticate ora questa premessa perché, arrivati alla fine della proiezione (con grande fatica a dirla tutta) davvero non ho trovato in questa pellicola alcunché da poter anche vagamente elogiare senza arrossire di vergogna o darmi dello spudorato mentitore, nessun appiglio benché velleitario. Così, più che scorrevano leggeri i fasci di luce a scandire il tempo e ad impressionare la bianca tela d’immagini vacue più che mi materializzavo fra i granelli di polvere, trafitto insomma anch’io dai raggi inesorabili del proiettore; per 105 minuti primi in un crescendo di dolore al solo pensiero che la rogna più grossa per me doveva ancora cominciare. Sì, il ruolo che mi sono sciaguratamente ritagliato in questa società è quello di scrivere, raccontare ciò che mi accade intorno e tanto più è duro quanto meno ci sono elogi da dispensare. Qualcuno dirà che avrei potuto semplicemente non scrivere, non darmi questa briga, non rovinare questo grande evento della comunità pattese; eh no! Non è così facile. Mah, meglio tornare a noi, magari in un’altra vita mi metterò a scrivere anch’io sceneggiature ed a girare film, lasciando l’impresa di parlarne ad altri, semplificandomi la vita.
Come da titolo, “Cenere” ha di buono solo il nome (e, invero, anche tanta buona musica sprecata), nel senso che – e questo vuole essere un mio sincero augurio per regia, produzione, cast e maestranze varie – bisognerebbe proprio metterla da parte questa esperienza e risorgere dalla cenere come l’araba fenice.
Ritmi lenti, lentissimi, interminati primi piani e sovrumani silenzi, contorni sgranati e sfumati, tutte queste cose, oltre a non riuscire a mascherare una sceneggiatura a dir poco carente e banalotta, contribuiscono a rendere il tutto ancor più grottesco. Non dunque fotografia di disagi sociali e di giovani disadattati ma caricatura degli stessi, eccessiva semplificazione e banalizzazione a danno degli stessi. Dietro le maschere dei tossici, dei lenoni, della prostituta, dei giovani scapestrati non c’è nulla, i protagonisti si muovono come marionette senz’anima entro un angustissimo paesaggio di cartapesta; le battute di Julien si possono contare sulle dita di una mano e sì, è anche vero che gli sguardi, a volte, dicono più delle parole, ma, credetemi, non in questo caso, qui al più voglion dire mi piaci, ora ti porto a letto; ogni tanto disegna, ogni tanto arreda qualche parete con l’effigie della bella amata… ma le affinità elettive con Jack di Titanic si arrestano qui (Jack annega alla fine, Julien sin dal principio) . Anche le scene di nudo non riescono a fruttare l’effetto sperato; non c’è sensualità né pathos ed anche in questo caso in soprannumero senza un perché. L’antagonista poi non funziona affatto; è una sorta di pappone (rigorosamente dell’est europeo, sennò che piacere c’è!) grossolanamente abbozzato -come gli altri personaggi d’altra parte – e per di più sembra un lenone uscito da una qualche commediuola figlia di un Plauto minore.
Se l’obiettivo (come sembra di capire leggendo alcune note stampa) era quello di volgere lo sguardo verso “una società che troppo spesso facciamo finta di non vedere”, beh, direi che è stato mancato e di parecchio; forse potremmo dire che troppo spesso facciamo finta di vedere ciò che non vediamo per niente, lasciandoci invece sommergere dai topoi. Che molte opere prime siano imperfette è un dato di fatto, non voglio girare il coltello nella piaga con la ricerca e l’enumerazione di carenze tecniche, ma qui mancano proprio le basi perché la storia possa reggere. Dà tutta l’impressione di essere una cosa fatta tanto per farla, senza idee, senza mordente, stereotipata all’ennesima potenza.
Un tempo questi film per adolescenti (penso ad alcuni di Muccino o di Moccia) non avevano particolari velleità sociali (se non di riflesso) ma forse erano più onesti e sicuramente fatti meglio. Ad aggravare la mia opinione su quest’opera due considerazioni su tutte: prima, non posso pensare che dei giovani rampanti si arrendano a tale pochezza di idee effondendo stereotipi e sciatteria a profusione, seconda, quando hai per le mani Roma, anche nei suoi ambienti ed ambiti più malfamati, la sfrutti fino al midollo, non mostri asfalto, portoni di condomini e scorci sgranati, qualunque sia il budget a tua disposizione.
Ardò (Armando Di Carlo)

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