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Almanacco Siciliano. Poco pubblico per Pirrotta ma molto calore.

9 Luglio 2016 Articoli per SenzaPatti Interviste


Si è concluso ieri sera al teatro greco di Tindari il breve tour dello spettacolo “Almanacco Siciliano” tratto dal testo “Almanacco Siciliano delle morti presunte” di Roberto Alajmo e prodotto dal “Biondo” di Palermo in collaborazione con l’Assessorato Regionale. Ottimo antipasto di teatro estivo in attesa del “Tindari Festival”. Protagonista assoluto è stato Vincenzo Pirrotta con la sua solita verve, il suo inconfondibile metro e tutta la sua energia prestata a favore di questo nostro epos moderno che è la mafia. A coadiuvarlo un eccellente duo a fare quasi da coro greco e l’eccezionale presenza dei fratelli Mancuso coi loro liuti.
Sebbene la sceneggiatura tratta dal testo di Alajmo si sia rivelata troppo spartana e non priva di imprecisioni (come, ad esempio, per quanto concerne la storia di Giuseppe Di Matteo; il bambino sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia) ed anche la scenografia non fosse delle migliori (ricordando malamente e vagamente un certo teatro sperimentale degli anni 70), la vis attoriale degli interpreti e l’argomento trattato, hanno commosso l’esiguo pubblico che ha lungamente applaudito.
Un flop di presenze (registratosi anche nelle precedenti tappe di Catania e Morgantina) che nulla toglie al successo dell’interpretazione e della regia ma che certo dovrebbe far riflettere i produttori su alcuni cambiamenti alla lacunosa sceneggiatura, alla scenografia ed al periodo di messa in scena (non essendo propriamente uno spettacolo adatto alla stagione estiva).
Di seguito le interviste a Vincenzo Pirrotta ed a Enzo Mancuso.
Qui a Tindari sei ormai un abitué, hai comunque portato questa sera sul palco corde diverse dal tuo solito; il ricordo delle stragi mafiose, gli ultimi attimi di queste vite spezzate, la musica dei fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso. Poco il pubblico, ma ha senz’altro gradito questo tuo spettacolo sincero. Quali sono le tue sensazioni?
Guarda, recitare in un luogo come questo ti dà sempre delle emozioni in più rispetto ai teatri che non hanno questo carico di storia. Questo di stasera io non lo definisco uno spettacolo ma una liturgia laica, una messa laica; per cui, diciamo, rispetto magari anche ad altri mei, il disegno è forse meno coreografico, più stilizzato, proprio per caricare ancor di più dramma nella sintesi. Così come il testo fa una sintesi, non racconta i drammi, le tragedie di questi delitti con il sangue, ma, come dire, si concentra sugli ultimi secondi di vita di queste vittime. La stessa cosa ho quindi cercato di fare io con la regia, piena di simboli; è uno spettacolo dove i simboli sono fondamentali, come in ogni rituale.
Secondo te il teatro in questo come può contribuire per una coscienza morale diversa rispetto alla solita.
Il teatro è nato per questo, i greci – qui ci troviamo in un teatro greco – facevano del teatro il luogo dell’anima, il luogo dove fare come dire la rivoluzione delle coscienze, il teatro questo compito non lo ha mai perduto e oggi ancor di più che c’è questo mondo dove c’è questa disgregazione dei valori, evaporazione dei valori, ancor di più il teatro assume un ruolo di ultimo baluardo, insieme a poche altre cose, in cui sviluppare il senso di una rinascita, di una rivoluzione delle coscienze, di una possibilità di rivalsa, di rivincita. Perché è chiaro che – soprattutto nel nostro paese – la cultura è trascurata è dunque è stata sconfitta, e allora il teatro di un certo tipo, il teatro come orazione civile (come quello di questa sera) deve servire per lanciare una corda alla quale ci si può attaccare per cercare di mettere in salvo questo patrimonio, di mettere in salvo questa coscienza civile che non esiste più.
Tutto questo rappresenta dunque uno sforzo incredibile, lo abbiamo visto anche nel tuo sforzo fisico in scena; voleva dunque lo sforzo fisico rappresentare tangibilmente questa difficoltà?
Io faccio un teatro che è anche un teatro del corpo oltre che della parola. La parola ed il corpo utilizzati in questo modo; è una dotazione stilistica mia. E’ vero però che, nella simbologia di cui parlavamo prima, c’è evidenziato tutto questo, come ad esempio quando le due sacerdotesse spremono questi limoni e rappresentano esattamente quello che diceva lei prima.
La collaborazione coi fratelli Mancuso?
Ci siamo conosciuti vent’anni fa perché io ero un giovane allievo di Mimmo (Cuticchio ndr.) e abbiamo collaborato in uno spettacolo che si chiama Francesco e il sultano ed io sono rimasto affascinato da sempre dalla loro musica, dalle loro canzoni, dai loro canti, dalla loro ricerca del tutto personale. Questa collaborazione con loro in “Almanacco” rappresenta dunque per me un sogno che si realizza.
Come diceva Pirrotta, è la vostra prima collaborazione diretta nonostante una conoscenza ultra-ventennale.
Sì, perché noi negli anni novanta abbiamo avuto una collaborazione col teatro dei pupi di Cuticchio e abbiamo composto delle musiche per un’opera che si chiama Francesco e il Sultano e all’epoca Vincenzo era allievo di Mimmo, puparo di seconda fila, come si suole dire, e siamo stati almeno un paio d’anni insieme a fare spettacolo, ad incontrarci; poi ci siamo un po’ persi di vista, lui giustamente ha fatto il suo percorso con grande professionalità, con grande carattere e ci siamo, a volte, incontrati in dei festival salutandoci, ora c’è venuta questa possibilità di lavorare insieme e con molto piacere abbiamo accettato, soprattutto per condividere la scena con un grande regista, con un grande attore.
Voi siete ormai conosciuti a livello internazionale; come possiamo però definire la vostra musica, che non è propriamente popolare.
Mah, guarda, già definire popolare è qualcosa di molto riduttivo; cosa pensiamo noi popolare? La canzone folk? La canzone che intrattiene in qualche modo un determinato pubblico? Credo che noi siamo due artisti, compositori, che scavano attraverso la voce e la musica cercando di trovare un filo quasi ancestrale con quello che era un canto molto arcaico in Sicilia; l’uso della voce che diventa strumento. Soprattutto sapere, in una scena, creare una situazione drammatica, creare una tensione e dare un segnale di quello che può essere il dramma, la sofferenza umana, ma anche la gioia o l’impegno sociale, l’impegno politico, una presa di posizione e tutte queste cose. Dire musica popolare è molto riduttivo perché la nostra non lo è. Ognuno di noi ha un mondo sonoro in cui naviga, sta al pubblico che ascolta identificarsi in quelle voci in quella musica ed è quello il nostro compito.
Questa arcaicità di cui parla si inserisce dunque perfettamente nel testo di Alajmo?
Sì diciamo che abbiamo composto queste musiche – due brani erano già stati composti e pubblicati nei nostri precedenti dischi – durante l’allestimento, cercando di capire la scena, come si doveva svolgere e usando poi anche tutto uno strumentario molto particolare, perché usiamo i liuti, usiamo un armonium che diventa una terza voce, usiamo anche dei flautini particolari che vengono dalla Turchia e quando vengono suonati sembrano il lamento di un agnellino che sta per essere sacrificato. Insomma, tutto va dentro ad una cornice, ad una storia drammatica come può essere quella dei morti ammazzati dalla mafia.
Tutti i musicisti che si sono qui trovati a suonare o cantare, hanno sempre avuto delle parole particolari per Tindari e per la sua acustica, lei cosa ci dice?
Allora, l’acustica e la cornice sono magiche! Si entra in perfetta sintonia con un mondo ancestrale, un mondo che è dentro di noi, che abbiamo vissuto e che, in qualche modo si evoca emettendo la prima nota con la voce. Un qualcosa di particolare, misurarsi con quello che ti circonda, con la natura, con il teatro costruito pietra su pietra… beh insomma, è una bella emozione.
Ardò (Armando Di Carlo)

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